Tra Israele e Libano è stop alle ostilità. Da quando i due arcinemici si sono accordati sullo sfruttamento di giacimenti offshore, lo stesso Hassan Nasrallah, leader del partito islamico sciita, ha dichiarato la fine del terrorismo. Una scelta che, però, rischia di accelerare il suo declino politico in un Paese sfinito dalla crisi e sempre troppo vicino all’Iran.
«Lasciatemi dire una cosa che ho contro Mosè. Ci ha portato per quarant’anni in giro per il deserto per condurci all’unico posto nel Medio Oriente che non ha petrolio». Questa sagace battuta, pronunciata da Golda Meir, prima (e unica) donna a guidare lo Stato d’Israele, potrebbe valere bene in parte anche per il suo controverso vicino di casa, il Libano del multiculturalismo e degli Hezbollah. Entrambi i Paesi, all’atto della loro fondazione nella metà del secolo scorso, condividevano questa condizione di minorità nella regione, che li ha costretti nei decenni successivi a rimboccarsi le maniche per puntare a diventare dei Golia della scena economico-finanziaria mediorientale, condizionati però da contese territoriali e dal furore del fanatismo religioso, che li ha precipitati in una spirale di guerre e violenze che li hanno resi nemici giurati.
Almeno fino a oggi. Già, perché dopo un accordo storico tra Beirut e Tel Aviv sullo sfruttamento dei giacimenti di gas offshore, nella zona di mare contesa, la pace (sia pur armata) si è momentaneamente imposta. Del resto, l’indipendenza energetica, specie in questo contesto di crisi internazionale che sta rivoluzionando le alleanze energetiche mondiali (di certo, quelle mediterranee), val bene un accordo tra i due Paesi confinanti.
Nonostante l’assenza di relazioni diplomatiche, infatti, Israele e Libano sono riusciti a raggiungere un’intesa, mediata dagli Usa, sui rispettivi confini marittimi e sullo sfruttamento dei giacimenti di cui sopra. Secondo le autorità di Tel Aviv e Beirut, il giacimento scoperto e l’accordo che ne consegue potrebbero soddisfare le esigenze di entrambi i Paesi, mettendo la parola fine alla contesa su un’area di oltre 860 chilometri quadrati nel Mediterraneo (dove sorgono i giacimenti di gas offshore di Karish e Qana). Ma anche, in potenza, portare alla cessazione delle ostilità e del terrorismo da parte delle milizie sciite.
A dichiararlo è stato proprio Hassan Nasrallah, dominus incontrastato di Hezbollah. Il suo annuncio, secondo cui «la missione della resistenza è finita», sembra una possibile svolta nelle relazioni tra Beirut e Gerusalemme. Sarà vero? C’è chi maligna che, in realtà, questo accordo giunga in un momento di estrema debolezza dello stesso Nasrallah, le cui condizioni di salute ne pregiudicherebbero la lucidità e, soprattutto, non garantirebbero longevità alla sua leadership. Nel dicembre scorso, infatti, il segretario di Hezbollah sarebbe stato colpito da un ictus che lo ha costretto a rimandare una serie di impegni pubblici. La mancanza di notizie in merito (il partito ha sempre alimentato il culto del segreto sulla sua organizzazione) ha scatenato una serie di indiscrezioni, in particolare da parte israeliana, secondo cui il 63enne sarebbe stato addirittura in terapia intensiva.
Il leader del «Partito di Dio» si è però presentato davanti agli schermi televisivi libanesi il 3 gennaio scorso – anniversario dell’uccisione da parte degli Stati Uniti del comandante militare iraniano Qassem Soleimani – senza mai citare i motivi reali della sua prolungata assenza. «Vorrei farvi stare tranquilli perché ho visto che alcuni media, alcuni israeliani e altri del Golfo, hanno detto che ho avuto un ictus, altri hanno detto che ero attaccato a certe macchine con respiratori e che ero in coma» ha commentato il leader. Hassan Nasrallah è comunque apparso sofferente, con una voce più roca del solito, e ha dovuto interrompersi più volte a causa della tosse. Da quel giorno, le sue apparizioni con il contagocce non fanno che aumentare le speculazioni sul futuro del partito e su una guida alternativa a lui. Di certo, l’ipotesi che «la missione della resistenza» sia davvero finita apre a molte incognite per il Libano.
Dopo essere diventato il più grande partito libanese, Hezbollah ha via via aumentato la sua influenza sulla vita politica del Paese, diventando una grande e ramificata forza regionale, capace di operare anche in teatri oltrefrontiera, grazie all’appoggio di cui ha sempre goduto da parte dell’Iran degli ayatollah. Lo si è visto durante la guerra civile in Siria, dove Hezbollah è intervenuto militarmente, creando una rete di interessenze e ritagliandosi ampi spazi di manovra al confine. Come nella Valle della Bekaa, ormai dominio incontrastato di Hezbollah, nonché fonte di molti traffici illegali (non ultimi, quelli legati agli stupefacenti e al traffico di armi). Partito politico, forza armata, gruppo terroristico, ma anche potenza economica e sociale. C’è tutto questo nel mix letale che il «Partito di Dio» ha incarnato sinora. Nemmeno Hassan Nasrallah, probabilmente, credeva che Hezbollah sarebbe arrivato a ottenere tutta questa influenza dopo gli esordi nella guerra del 1982, da cui ha avuto origine la sua forza paramilitare marcatamente antisionista.
Dopo averne colto le potenzialità, Nasrallah ha iniziato a capitalizzare il consenso e l’influenza regionale di Hezbollah fino a esprimere un vero potere in tutto il Paese, grazie non soltanto alla capacità coercitiva militare, ma anche all’assistenzialismo sociale nei confronti della popolazione. Un assistenzialismo condizionato però al sostegno da parte dei libanesi alla sua «guerra di resistenza» contro Israele, che invece si è rivelata una sempre più insensata minaccia terroristica senza princìpi, rivolta anche contro obiettivi civili e alla fine eterodiretta dalla Repubblica Islamica dell’Iran. Ma oggi, dopo quarant’anni di potere e dominio politico sul Libano, qualcosa si è rotto. Non solo sul piano marziale (come conciliare l’accordo sul gas con attacchi contro Israele?), ma anche nel patto sociale che lega ancora le giovani generazioni alla bandiera gialloverde: si assiste così a un cambiamento di prospettiva come non se ne vedevano da tempo. Sia sul piano politico che sociale. E questo condiziona e danneggia pesantemente soprattutto il potere di Hezbollah, il cui consenso si va erodendo e la cui percezione da parte del popolo è quella di non essere più una forza capace di tutelarlo o di distinguersi rispetto al resto del panorama politico nazionale.
Le proteste nella capitale Beirut, le barricate e gli incendi nei luoghi simbolo del potere centrale sono in parte rivolte anche contro Hezbollah. Di certo, concorrono all’«effetto Libano» cui assistiamo da mesi a questa parte; da quando cioè le banche commerciali hanno chiuso le porte ai loro clienti, impedendo loro di ritirare i propri risparmi, soprattutto in dollari, o di effettuare bonifici all’estero. Un default che pesa per 30 miliardi di dollari di debito internazionale, e minaccia quella che un tempo, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, era considerata la «Svizzera del Medio Oriente». Ecco che si arriva al paradosso di Tiro, nel sud del Paese, dove la settimana scorsa un gruppo di poliziotti ha fatto irruzione in una banca per «rapinarla» degli stipendi che non ricevevano da mesi. Forse, a queste condizioni per Beirut conviene davvero un accordo col «nemico» israeliano. E conviene finanche il disarmo della milizia, o quantomeno la trasformazione di Hezbollah verso la sola realtà politica.
Intanto, sul lato israeliano Benjamin Netanyahu – nonostante le molte turbolenze del suo governo – resta il garante di una linea conciliante con Beirut: a cena con il presidente francese Emmanuel Macron, il premier ha parlato delle «opportunità per espandere il circolo dei Paesi in pace con Israele», con chiaro riferimento non solo all’Arabia Saudita ma al Libano stesso, dove la compagnia petrolifera francese TotalEnergies sarà incaricata di estrarre il gas libanese dopo l’accordo raggiunto nei mesi scorsi con Israele. E conferma di voler «lavorare insieme» contro le attività «destabilizzatrici».
Non tutti sono d’accordo con questa visione. A cominciare da Teheran, che muove i fili del jihadismo sciita internazionale e conta ancora su Hezbollah per continuare a minacciare Israele, allontanando il Libano da una possibile svolta democratica. Come ha ricordato Cristina Franco, presidente dell’associazione Italia-Israele di Savona, nel corso della recente conferenza romana su Iran e Hezbollah, «la famiglia delle democrazie è sotto attacco, ed è una sfida da guardare in faccia». Forse, il Libano è ormai pronto.
