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Sequestrato un imprenditore. Per lui non si muove nessuno

Sequestrato un imprenditore. Per lui non si muove nessuno

Era in Africa per lavoro: a inizio aprile l’hanno fermato e rinchiuso, vogliono 700.000 euro per liberarlo. Per i volontari come Silvia Romano c’è sempre grande mobilitazione. Per Marco, invece, solo silenzio


Nel caso siate un imprenditore e abbiate il brutto vizio di girare il mondo per vendere i vostri prodotti, abbiamo il dovere di mettervi in guardia. Occhio, perché rischiate una brutta fine, cioè di essere sbattuti dietro le sbarre senza che nessuno si preoccupi di riportarvi a casa. Non vi avvisiamo senza ragione, né con la voglia di spaventarvi. Semplicemente, è la conclusione a cui siamo arrivati dopo aver letto la storia di Marco, un imprenditore veneto che da quasi due mesi è detenuto nelle prigioni di Khartum, capitale del Sudan, repubblica arabo-africana attraversata da Nilo e che si affaccia sul Mar rosso. Marco, questo il nome dell’uomo di cui su richiesta della famiglia evitiamo di citare il cognome, è un piccolo industriale che produce trasformatori elettrici. Tempo fa, tramite un intermediario, ha avuto l’occasione di vendere alcuni sistemi fabbricati dalla propria azienda a una società sudanese. Niente di strano, la produzione e la commercializzazione dei propri prodotti di questi tempi non può essere limitata dai confini nazionali: se c’è l’opportunità di piazzare qualche affare si parte con il catalogo in valigia, senza fare troppo i preziosi riguardo alla destinazione. Nel caso in questione, pare che il viaggio non sia stato neppure necessario, perché a rivolgersi alla piccola impresa veneta ci ha pensato direttamente la controparte sudanese, un’azienda statale interessata ai dispositivi elettrici fabbricati nel capannone della fabbrica italiana. Insomma, affare fatto, senza neppure doversi spostare. O per lo meno così sembrava. Peccato che a un certo punto, da Khartum si siano lamentati per il cattivo funzionamento dei trasformatori e Marco, per cercare di risolvere il problema, sia decollato verso la capitale del Sudan. Risultato, una volta atterrato è stato sbattuto in prigione, costretto a dormire per terra e a mangiare una volta al giorno ciò che il padre e l’ambasciata riescono a fargli pervenire dietro le sbarre.

La situazione kafkiana è peggiorata da quando l’intermediario con cui Marco aveva trattato l’affare è stato rinvenuto cadavere nel Nilo, deceduto secondo la versione ufficiale durante un’immersione. Una morte misteriosa. Il Gazzettino, quotidiano del capoluogo veneto che ha svelato il caso, parla di giallo e fa capire che in realtà, dietro ci sia il tentativo di ottenere dalla famiglia dell’imprenditore, che ha 46 anni, un riscatto di alcune centinaia di migliaia di euro. Il capo di una milizia locale vorrebbe arricchirsi con i soldi del piccolo imprenditore e richiederebbe il pagamento di 700.000 euro per restituire ai famigliari il loro caro, minacciando, nel caso non siano esaudite le richieste, di condannare lo sfortunato imprenditore a una fine tipo quella di Giulio Regeni, lo studente friulano rapito e torturato dalla polizia egiziana.

Certo, la storia di Marco è molto diversa da quella di Giulio. Qui non c’entrano i servizi segreti e neppure le trame del regime di Al Sisi, ma abbiamo a che fare con una normale fornitura di apparecchiature elettriche, una delle migliaia di operazioni commerciali con l’estero che i nostri imprenditori fanno nel disperato tentativo di tenere a galla, oltre al Pil dell’Italia quello delle loro famiglie. Vi state chiedendo perché abbiamo portato alla vostra attenzione il caso di un piccolo industriale incappato in una storia più grande di lui e in quello che a tutta prima ci pare un ricatto? Per il semplice motivo, che dopo aver letto la sua storia sul quotidiano di Venezia ci siamo resi conto che del suo caso non si interessa nessuno. Se siete un ingenuo volontario che parte per l’Africa allo scopo di aiutare il prossimo e finite invece per essere costretti a chiedere aiuto per evitare di essere sgozzati, come è capitato a Silvia Romano o a tanti altri benefattori dell’umanità che non conoscono l’animo umano, state tranquilli che si mobiliterà il mondo chiedendo la vostra liberazione. Per la Romano, poi convertita all’islam, sono scesi in campo i diplomatici e pure gli 007 e alla fine per riportarla a casa pare che il nostro Paese abbia messo mano al portafogli. Niente di strano, intendiamoci: per la giovane milanese si è pagato un riscatto come si è fatto con altri giovanotti, partiti per salvare il mondo senza sapere che rischiavano di dover essere salvati a spese dei contribuenti. L’elenco è lungo e per andare a recuperare questi idealisti della pace nel mondo c’è che chi, tra i funzionari dello Stato, ci ha rimesso le penne, ma questo è un altro discorso, che prima a poi si dovrà aprire per capire quali siano i costi, economici e umani, delle scelte fatte dalle anime belle intenzionate a cambiare il mondo.

Tornando però al caso di Marco, che dall’inizio di aprile sta in una prigione di Khartum, ci chiediamo perché nessuno faccia nulla. Perché, a differenza del caso di Silvia Romano e di altri sequestrati, questo rapito non susciti lo stesso interesse, la stessa pietà e una uguale volontà di riportarlo a casa. È vero, lui non è partito per il Sudan con l’intenzione di aiutare il popolo che soffre, ma solo con la voglia di vendere i suoi trasformatori elettrici, allo scopo di guadagnare qualche soldo per mantenere la sua azienda e, soprattutto, la sua famiglia. Sappiamo che per alcuni, la semplice idea di trarre profitto da un’attività economica è di per sé qualche cosa di sporco. Ma ci auguriamo che l’odio per le attività economiche non abbia raggiunto i piani alti del governo. Mario Draghi ha detto spesso che si devono aiutare le imprese che hanno la possibilità di salvarsi dalla crisi economica. Beh, qui c’è da salvare prima di tutto un imprenditore e poi la sua attività. Dunque, ci auguriamo che il governo si dia da fare per riportare a casa in fretta un uomo che, oltre alla propria impresa, rischia anche la pelle. L’indifferenza nei confronti del suo caso sarebbe un brutto messaggio per tutti quegli imprenditori che ogni giorno si dannano l’anima per vincere la sfida di sopravvivere nonostante le difficoltà.

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