La verità sul debito monstrum di Roma
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La verità sul debito monstrum di Roma

Con 1,2 miliardi di disavanzo e 62 mila dipendenti, il problema ora è la capitale, che la stampa Usa paragona a Detroit. Ma presto potrebbe toccare anche ad altri comuni. Fontana a Marino: vendi le partecipate.   Vota il sondaggio

Con un disavanzo strutturale di circa 1 miliardo di euro, 62 mila dipendenti (di cui 37 mila relative alle municipalizzate) che gravano ogni anno per 327 milioni di euro sul disastrato bilancio cittadino, 26 società municipalizzate in rosso tra cui spiccano i mostri Acea (energia e acqua), Ama (rifiuti) e Atac (trasporti), Roma Capitale si ritrova oggi a un passo dal default finanziario, come è già accaduto ad Alessandria, la prima città italiana di cui, dopo aver certificato un buco di 46 milioni di euro, la Corte dei Conti ha dichiarato nel 2012 il default.

Il punto è che Roma non è Alessandria. E se il debito corrente continua a correre a questi ritmi, secondo una progressione che Fitch ha certificato in 137 milioni nel 2009, 122 nel 2010, 313 nel 2011, 255 nel 2012, 250 nel 2013, non basterà nemmeno l'iniezione di quei 485 milioni di euro freschi per il bilancio 2013 bloccati dall'ostruzionismo leghista-grillino, a rimettere in sesto il mostro della macchina comunale romana. Dove spiccano, per altro, a voler spulciare i bilanci, anche innumerevoli assurdità, come quei ventitre avvocati alle dipendenze dell'Amministrazione che, con una retribuzione che va da un minimo di 262 a un massimo di 321 mila euro, gravano sulle casse del comune per 6 milioni e 648mila euro nel 2012, cifra destinata a salire ogni anno a seguito delle rivalutazioni. E poi 44 farmacie complessivamente in perdita che hanno cumulato debiti per 10 milioni di euro,  un'addizionale più che doppia che i romani devono pagare  rispetto alla media italiana, 12 miliardi di debiti pregressi (alcuni dei quali vecchi più di cinquant'anni), la mancata riscossione dell'Imu che avrebbe reso superfluo il decreto divenuto oggetto dello scontro tra Palazzo Chigi e il Campidoglio, l'indebitamento monstrum di Ama, Atac e Acea (che hanno alle proprie dipendenze l'85% del personale di tutte le municipalizzate romane)... Ce n'è abbastanza, per il Wall Street Journal, per immaginare che Roma faccia la fine di Detroit, la città dell'auto americana crollata dopo la crisi del 2008.

Il punto è che Roma è diventata un paradigma del dissesto dei comuni italiani. E dopo la città eterna - se non intervenisse il governo a mettere una toppa almeno per il 2013 - potrebbe toccare a Napoli, la città partenopea  che - con almeno 783 milioni di disavanzo e un contribuente su due totalmente esentato - sta ormai sprofondando sotto i colpi di scelte e decisioni politiche che si sono accumulate negli anni, nei decenni, fino alla disastrosa gestione De Magistris. O Torino (3,5 miliardi di debito gran parte dei quali però giustificabili con gli investimenti strutturali legati alla metropolitana e ai giochi del 2006) e Catania che con il suo rosso 528 milioni di euro sta attuando un timido piano di rientro.

La prospettiva insomma è chiara: se lo Stato non interverrà in modo strutturale, l'alternativa immediata per i  comuni è quella di fare cassa svendendo a prezzo di saldo ai grandi avventurieri privati i propri gioielli come le Fondazioni liriche o le municipalizzate, come Acea - l'unica a Roma che riesce ancora a registrare un utile netto - cui guardano ormai con crescente interesse i Caltagirone e i francesi di Suez. Ma anche in questo caso, una volta garantitasi una nuova iniezione di liquidità, il debito rischiederebbe di riprendere a correre. Dopodiché, se non cambieranno le regole in Europa, non rimane che un'alternativa: licenziare i dipendenti pubblici, a migliaia, a decine di migliaia. E in tempi di crisi una cura da cavallo creerebbe nuova recessione.

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