Centri per l’impiego: perché non funzionano
Economia

Centri per l’impiego: perché non funzionano

Sono 553, ma fanno scarsi investimenti, hanno personale con insufficiente formazione e collocano solo il 4,2 per cento degli assunti. Troppo poco per affrontare il piano europeo da 9 miliardi per il lavoro che partirà nel 2014

Ogni 100 persone che hanno trovato lavoro dal 2003 a oggi in Italia soltanto 4 sono passate attraverso i centri per l’impiego, ovvero gli sportelli che prima della riforma del 1997 si chiamavano uffici di collocamento. Degli altri fortunati, 37 ce l’hanno fatta grazie alla rete di amici, parenti e conoscenti che si sono mobilitati; 18 sono gli intraprendenti, cioè quanti si sono proposti alla persona giusta al momento giusto; 10 hanno aperto un’attività autonoma; 8 sono passati per un concorso pubblico; 7 hanno sfruttato il passaparola nell’ambiente di lavoro. Il restante 16 per cento si divide fra agenzie per il lavoro interinale, offerte di lavoro pubblicate dai giornali, canali universitari e altro.

Prendiamo questi dati e fissiamoli nella mente. Poi andiamo a leggere le ultime novità di Bruxelles in tema di lotta alla disoccupazione. L’Europa ha deciso d’investire fino a 9 miliardi di euro nel piano Youth guarantee per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (nella fascia tra 15 e 24 anni il tasso di disoccupazione in Italia ha superato il 38 per cento). Circa 450 mila, tra diplomati e laureati, sono i potenziali beneficiari delle misure europee a favore dei giovani che, è specificato, dovranno essere gestiti proprio dai centri per l’impiego. Un’onda immensa, che dovrà passare attraverso un collo di bottiglia dal quale in tutto il 2012 sono transitati solo 17 mila posti di lavoro. E la piena arriverà fra cinque mesi, all’inizio del 2014. Potranno farcela i centri per l’impiego italiani?

Oggi sono 553, distribuiti su tutto il territorio ma con prevalenza al Sud. Gli orari di sportello, nella gran parte dei casi, sono di appena 3 o 4 ore al giorno. Dispongono ciascuno di un numero medio di 16 addetti, per un totale di 8.781. Gli impiegati sono al 90 per cento ex dipendenti del ministero del Lavoro, lì ricollocati dalla riforma del 1997. Si tratta di figure non particolarmente qualificate, alle quali le province, utilizzando i fondi comunitari, hanno affiancato negli anni personale spesso più preparato, ma precario. Difficile quantificare il costo pubblico complessivo dei servizi per il lavoro. Il ministro del Lavoro Enrico Giovannini ha parlato recentemente di 500 milioni di euro l’anno, mentre altri paesi come Gran Bretagna, Germania e Francia investono 5 miliardi.

Poiché sono circa 2 milioni le persone che ogni anno si rivolgono a un centro per l’impiego italiano chiedendo un lavoro, e altre 600 mila bussano soltanto per un supporto in servizi personali e amministrativi, fatte le divisioni siamo a 3.500 utenti per ufficio, 226 in media per ogni operatore in 12 mesi: meno di uno al giorno.

In Gran Bretagna, dove gli addetti sono 80 mila, il rapporto è di 1 operatore ogni 24 disoccupati; in Francia 1 a 70. In Germania, con 176 sportelli, il rapporto è 1 a 49: un terzo dei nostri uffici. Ma le differenze non finiscono qui: «In Germania non c’è una divisione tra ente previdenziale ed enti per l’impiego» sottolinea Luca Nogler, professore di diritto del lavoro all’Università di Trento. «Un’unica agenzia federale, l’Agentur für Arbeit, gestisce sia gli assegni per disoccupati sia i servizi all’impiego». Per di più la macchina organizzativa è assai meno costosa. «E in Germania, dove la competenza è federale, le decisioni politiche vengono applicate con grande velocità. In Italia, fatta la legge, bisogna aspettare che si adeguino i diversi livelli regionali».

Su un totale di 2,9 milioni di disoccupati tedeschi, il 31 per cento è gestito dagli sportelli pubblici. Quota ben più alta di quella italiana, ma pur sempre limitata. «In tutti i paesi europei, anche in quelli più efficienti come Francia, Germania e Danimarca, i centri per l’impiego intermediano in modo diretto una minoranza di disoccupati» sottolinea Emilio Reyneri, sociologo del lavoro all’Università Milano Bicocca, tra i più grandi studiosi italiani della materia. «Partiamo dall’impresa che vuole assumere. Se è grande, pubblica la richiesta sul proprio sito internet. Se è piccola, attiva i canali informali, ovvero chiede ai dipendenti, che conoscono le dinamiche aziendali, di sondare amici e parenti ritenuti all’altezza». La stessa cosa succede dal lato del lavoratore in cerca di occupazione. Soltanto quando tutte le reti informali non hanno prodotto effetto entra in campo l’intermediazione privata e pubblica. «Ma siamo al fondo del barile, il placement residuale» dice Reyneri. «Ai centri per l’impiego arrivano i casi più critici e complicati, ai quali va offerta attività di supporto: consigli, un aiuto per scrivere il curriculum, corsi per affrontare un colloquio». Insomma, si riparte da zero.

Ed è qui che i servizi per il lavoro esercitano la loro funzione. L’Isfol, ente pubblico controllato dal ministero del Lavoro, invita a distinguere usando un paragone calcistico: il centro per l’impiego non è un centravanti che va giudicato sulla base dei gol realizzati, ma un centrocampista, un regista, che tesse le trame di gioco e fornisce gli assist. Quindi il dato giusto per valutare l’operato dei servizi per il lavoro, sostengono all’Isfol, sarebbe un altro: il
26 per cento di persone che sono passate attraverso le iniziative per l’orientamento e poi, in maniera autonoma, hanno trovato occupazione. «Anche perché dopo la riforma del 1997 la missione non è più l’intermediazione, ma l’erogazione di servizi per l’occupabilità» precisa Emiliano Mandrone dell’Isfol. «Il problema è che l’intermediazione in Italia è esercitata in prevalenza attraverso canali informali, soprattutto familiari».

Tutto vero, per carità. Il punto però è che la Youth guarantee alle porte richiede ben altro che consigli preziosi su come riqualificarsi e presentarsi ai colloqui. Il sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa, è chiaro: i centri per l’impiego saranno oggetto di grossi investimenti. Bene, perché, visto il poco tempo a disposizione per attuare il programma europeo, non sono permessi errori e bisogna saper spendere in modo efficace. E l’Italia è già in ritardo. In Germania, per esempio, ci sono sei scuole (la principale delle quali a Norimberga) dedicate alla formazione del personale dei servizi per il lavoro. In Italia non c’è nemmeno un percorso formativo per i funzionari dei centri per l’impiego.

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Carmelo Abbate