Steven Spielberg, intervista esclusiva al regista
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Steven Spielberg, intervista esclusiva al regista

In occasione dell'uscita in blu-ray e dvd del suo ultimo film Lincoln, il maestro parla non solo del suo mondo professionale ma anche di aspetti di vita privata, con particolare riferimento alla figura paterna

L'occasione per parlare con Steven Spielberg, definito dalla critica internazionale il più grande regista vivente di Hollywood, è l'uscita in Blu-ray e dvd, l'8 maggio, del suo ultimo film Lincoln. Quarant'anni di carriera, Premio Oscar due volte come miglior regista per Schindler's list (1993) e Salvate il soldato Ryan (1998), è stato legato da grande amicizia a Stanley Kubrick che lo ha apprezzato fin dagli esordi. Tre dei suoi film, Jaws (1975), E.T, l'extraterrestre (1982) e Jurassic park (1993) hanno polverizzato tutti gli incassi a livello internazionale e ognuno è divenuto il più grande film del periodo storico in cui è stato realizzato. L'ultima sua pellicola, Lincoln, interpretato da Daniel Day-Lewis, racconta la battaglia intrapresa dal Presidente degli Stati Uniti per far passare il 13esimo emendamento che aboliva la schiavitù e creava le condizioni per favorire la fine della guerra civile.

In questa intervista, rilasciata in esclusiva a Panorama.it, il grande regista parla anche della sua vita privata, del padre in particolare e delle tecniche che utilizza ogni qualvota è alle prese con un nuovo film

Cominciamo dalla sua passione per la storia. Quale è stata l'epoca storica che maggiormente l'ha affascinata fin da piccolo e perché?
Il mio primo interesse storico è stato per la guerra, in particolare per le vicende della Seconda Guerra Mondiale accadute in Europa. Questo perché mio padre vi ha combattuto e da bambino le storie di guerra sono state le prime che ho ascoltato, raccontate da lui. Mio padre è stato impegnato in quello che gli americani chiamavano "China-Burma-India theatre", indicando con questo termine generico le zone della Cina, Birmania e India coinvolte nel conflitto. E lui stesso partecipò a una serie di missioni.  Poiché aveva un'alta competenza tecnologica, infatti era ingegnere elettronico, fu nominato Tech Sergeant, Head of Communications della base aerea in cui si trovava. Così, man mano che crescevo, mio padre ha avuto modo di raccontarmi tutto quello che aveva vissuto in prima persona durante il conflitto. E io non l'ho mai dimenticato.

Si dice che il film Lincoln sia stato in parte ispirato dalla riconciliazione con suo padre. È vero?
Non del tutto. Mi sono riconciliato con mio padre vendidue anni fa. Certo siamo stati sempre molto vicini, anche quando abbiamo deciso di prenderci una pausa l'uno dall'altro. Questo evento ha sicuramente influenzato parecchi dei miei film, ma non ha influenzato la mia decisione di realizzare determinati film. Anche se io avessi avuto sempre un felice e gratificante rapporto con il mio genitore, e se non ci fosse stata questa pausa di riflessione tra noi due, io, probabilmente, avrei fatto le medesime scelte professionali che ho in effetti fatto.

Sulla scorta della sua esperienza personale, quali sentimenti le ha ispirato la figura di Lincoln-padre che lei ha indagato in maniera così completa?
Il Presidente era un genitore con una visione molto aperta della paternità per quei tempi. Lasciava liberi i due figli Willie e Tad di scorazzare indisturbati per tutte le sale della Casa Bianca al punto da diventare un vero e proprio incubo per i servizi di sicurezza. Una libertà che ho molto apprezzato. Quando Willie morì, toccò a lui fare anche da madre all'altro figlio, perché la moglie cadde in uno stato di depressione durato anni.

Prima che lei inizi a girare un film, è sua abitudine rivedere un insieme di pellicole di registi a lei cari, tra cui Lean, Kurosawa. Ha fatto lo stesso anche prima delle riprese di Lincoln?
No, per Lincoln il percorso è stato differente, perché ha rappresentato per me una ricerca lunga undici anni. Durante questo periodo molte volte ho ritenuto di essere pronto ai nastri di partenza, ma dopo sono sempre tornato indietro. Non ho sfruttato Hollywood per avere un'ispirazione, Lincoln stesso era per me la giusta ispirazione. E poi ad eccezione di sole due pellicole, in 72 anni, non c'era stato nessun altro regista che aveva raccontato il Presidente.

Ogni film nella sua struttura rappresenta una sfida. Riesce lei a paragonare la difficoltà di una pellicola con quelle che hanno caratterizzato gli altri suoi film?
È un compito che non mi appartiene. Non amo paragonare un mio lavoro agli altri, è un esercizio intellettuale che non voglio fare. Non potrei mai, ad esempio, paragonare Schindler's list o Ryan con Lincoln. Oppure Lincoln con E.T. perché ogni film rappresenta quello che io sono in determinati periodi della mia vita. Ad esempio non avrei mai immaginato di poter realizzare un film come Lincoln trent'anni fa. E dieci anni prima che realizzassi E.T. allo stesso modo, non potevo pensare che sarei stato in grado di portare una tale storia sul grande schermo.

Cosa le rimane dopo aver girato un film e, in particolare, cosa le è rimasto dentro dopo la fine delle riprese di Lincoln?
Cominciando da Lincoln: questo lavoro testimonia il mio profondo amore per la storia e dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che io sono un patriota e amo questo paese. Tale concetto è stato il leit motiv di moltissimi miei film, in passato. Però questa volta c'era un quid, un particolare che mi sono sforzato di mettere bene in evidenza. È il rispetto per la constatazione che la democrazia funziona e che il meccanismo democratico non si discosta molto da quello di 150 anni fa. Ho voluto che fosse ben chiaro. Certo, noi adesso abbiamo i media che controllano ogni azione. Allora non c'erano, ma non per questo esisteva minor controllo su quanto accadeva.

Lei è sempre stato infaticabile, riuscendo a girare persino tre film in un anno. Quale è stato il più lungo periodo di pausa tra un film e l'altro?
Tre anni. Un paio di volte nella mia vita mi son preso tre anni di pausa ma solo come regista. Perché nel frattempo stavo sviluppando sceneggiature e ero impegnato in altri progetti sul piccolo schermo. Solo non dirigevo film. C'è stato un periodo durante il quale ho diretto tre film in un solo anno, The lost word, Amistad e Salvate il soldato Ryan. L'ho fatto come usavano fare i vecchi registi di un tempo. Alla fine ero talmente stanco dal punto di vista mentale e fisico che mi sono concesso tre anni di pausa.

Tornando alla regia, è stato sempre tutto facile, oppure anche Steven Spielberg spesso si è sentito alquanto incerto?
Ci sono state incertezze anche per me. Non sempre tutto è facile come andare in bicicletta. Chissà, forse dovrei andare a scuola di cinema e comprare un manuale. Scherzo, naturalmente. Il cinema fa parte del mio DNA, ma posso assicurarvi che, dopo tre anni lontano dalla macchina da presa, un po' incerto mi sentivo. Soprattutto nelle prime settimane. Ma è durato poco.

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Marida Caterini.