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I pirati dei brevetti

I pirati dei brevetti

La tecnologia per la rigenerazione dei tessuti di un’azienda italiana è stata copiata (e rivenduta) in giro per il mondo. E l’episodio dimostra la scarsa tutela della «proprietà delle idee» nel nostro Paese.


I pirati di oggi non arrembano al largo dei Caraibi, ma sanno leggere i bilanci e discutere di investimenti. E i forzieri che depredano non contengono dobloni d’oro ma fogli elettronici con formule e brevetti. Programmi costati anni e anni (e milioni di euro) di fatica. Sono i mariuoli dell’intelligenza e delle capacità altrui, per esempio in un campo remunerativo come quello medico. Tanto abili e spregiudicati da cavalcare con disinvoltura le onde di una concorrenza internazionale sempre più sleale e insofferente a regole e leggi.

Uno di questi ultimi assalti è stato portato al progetto Rigenera, realizzato dalla Human brain wave srl (Hbw) di Torino, società di ricerca esperta in biotecnologie e applicazioni cliniche di medicina rigenerativa. È una metodologia in grado di riparare tessuti danneggiati tramite la «preparazione di sospensioni di micro innesti», che di fatto ha rivoluzionato la medicina rigenerativa aiutando decine di migliaia di pazienti a guarire, con tempi e risultati accelerati, da lesioni di tipo ortopedico, odontoiatrico e dermatologico che, prima, richiedevano interventi ben più invasivi e difficili.

Una scoperta tutta italiana, cui sono interessate persino la Nato e l’Agenzia spaziale europea, finita però nelle mani di predoni stranieri che non solo l’hanno copiata, riproducendo tanto il dispositivo quanto il protocollo medico alla base del suo funzionamento, ma l’hanno addirittura messa in commercio di soppiatto pur essendo coperta da brevetto nazionale e internazionale. Trasformando un plagio in minaccia potenziale per la salute pubblica perché le riproduzioni di Rigenera, realizzate con materiale non omologato per usi medico-chirurgici ma solo di laboratorio, potrebbero arrivare in Europa e nel nostro Paese. E finire nelle mani di apprendisti stregoni e abusivi col camice bianco che non si fanno scrupolo, per guadagnare poche decine di euro a seduta, di eseguire senza preparazione interventi di medicina estetica e plastico-ricostruttiva ai danni di ignari pazienti, semplicemente confidando nell’effetto miracoloso di una cura innovativa.

È il caso del falso chirurgo estetico scoperto a Lucca qualche settimana fa, che riceveva le clienti nei negozi di parrucchieri e addirittura nella sala d’aspetto di un commercialista. O come il «collega» di Varese – in realtà un semplice agente immobiliare – finito sotto processo per aver tentato un lifting su sette persone. E ancora, come la sedicente dottoressa napoletana denunciata per aver allestito una sala operatoria in un container risalente al terremoto del 1980.

Per difendersi da questo furto, la Hbw si è rivolta all’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale, che ha depositato un articolato esposto alla Direzione distrettuale antimafia di Torino in cui si ipotizzano i reati di associazione per delinquere e ricettazione. Finora, le copie del «disgregatore di tessuti» biologici dell’azienda torinese sono state vendute senza autorizzazione in almeno un paio di continenti.

A mettere in circolazione la strumentazione sarebbero state due società, una italiana e l’altra irlandese. Alla prima era stata affidata la fabbricazione dei componenti per il dispositivo con relativa condivisione del know how e dei segreti aziendali. La seconda, invece, sarebbe subentrata in un momento successivo proprio per controllare i mercati esteri e impedire la proliferazione di versioni contraffatte del dispositivo originale.

Eventualità che, però, non solo non si sarebbe verificata ma, stando alla memoria di Hbw, si sarebbe aggravata addirittura con la creazione a opera della società di Dublino di un vero canale parallelo (e illegale) di vendita nell’est Europa. Insomma, una surreale inversione di ruoli: i ladri che si travestono da guardiani. Quasi nello stesso tempo, una terza azienda – con sede a Miami, in Florida – ha pubblicizzato su YouTube un ulteriore dispositivo del tutto identico a quello progettato dalla Hbw distribuendolo in America Latina, Stati Uniti e Russia. Allargando quindi a dismisura il perimetro delle presunte violazioni commerciali. Il sospetto dell’azienda torinese è che l’impresa italiana e quella irlandese fossero d’accordo e abbiano gestito il rapporto contrattuale con Hbw al solo scopo di arricchirsi sfruttando i ritrovati altrui.

«Nel momento in cui un prodotto medicale, frutto di anni e anni di sforzi e ricerche, cui hanno partecipato atenei e istituzioni pubbliche e private, non viene visto come un patrimonio dell’intera nazione ma come un qualunque altro bene aziendale di un privato, al pari di furgone o un sacco di cemento, crolla l’intero sistema culturale e scientifico che ha ideato quel prodotto stesso» dice a Panorama Antonio Graziano, presidente della Hbw e numero uno del polo tecnologico piemontese. «Parimenti, nel momento in cui trascuriamo a livello doganale la verifica dei titoli di proprietà e di quelli certificativi o abilitativi obbligatori per poter vendere in Italia un certo tipo di prodotto medicale, facciamo un doppio danno al sistema di competitività e alle imprese italiane. E questo perché alle nostre aziende vengono richieste certificazioni sempre più rigide, complesse e costose, invece ignorate dalle strutture abusive che immettono sul mercato prodotti privi dei requisiti di legge, quindi pericolosi per l’intera comunità internazionale».

Alla Procura di Torino l’azienda ha chiesto la confisca di tutto il materiale duplicato. Ma l’obiettivo è arduo considerata l’estensione del mercato. «La vicenda di Hbw suggerisce due spunti di riflessione, nonché due auspici» commenta con il nostro settimanale l’avvocato Tirelli. «Che le autorità inquirenti siano determinate nel difendere l’industria e le innovazioni italiane con la stessa risolutezza con cui si dedicano a reati di minore impatto sociale e macroeconomico; in ultimo, l’appello va anche alla politica che non fornisce ai nuovi comparti biotecnologici tutele giuridiche penali efficaci per difendere la proprietà intellettuale dalla pirateria internazionale e dalla concorrenza sleale».

Per Luigi Nicolais, ex ministro per le Riforme della pubblica amministrazione ed ex presidente del Cnr, l’Italia più che poco attrezzata per la difesa delle sue scoperte appare «poco interessata», il che è anche peggio. «Come preparazioni saremmo in linea, il Paese possiede degli ottimi uffici legali» sottolinea a Panorama. «Il problema è che non si brevetta un’idea, ma un prodotto. È il punto di debolezza del sistema. Bravissimo nel produrre conoscenza, totalmente inadeguato nel trasformare la conoscenza in prodotti commerciali o processi. E, dopo, difenderlo». E quando ciò accade, sembra di veder spuntare in lontananza la bandiera pirata «Jolly Roger» a rovinare i piani.

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