Home » Il lato oscuro delle città smart

Il lato oscuro delle città smart

Il lato oscuro delle città smart

Mentre viviamo nelle nostre case, passeggiamo lungo le strade, prendiamo l’auto, migliaia di occhi ci «spiano»: negli ambienti urbani sempre più digitali, le nuove tecnologie rivelano a governi e operatori privati quasi tutto di ciò che facciamo (e siamo). Il rischio di essere «schedati» non è mai stato più concreto.


Ogni volta che il nostro volto si imbatte in una telecamera, un’azienda sta guadagnando in tempo reale. Dagli incroci stradali ai banchi di scuola, dentro la propria auto e persino nella stanza dei bambini, uno o più dispositivi ci scrutano. La tecnologia «smart» si sta evolvendo così rapidamente da rendere sempre più incerti i confini tra dispositivi ideati per alleviarci e sofisticati gadget pronti a sorvegliarci. Un recente incidente al Radio City Music Hall di New York ha generato scalpore: una mamma in gita con la figlia si è vista respingere, perché identificata come legale coinvolta in un contenzioso contro la MSG Entertainment. Un cartello all’ingresso avvisa che il riconoscimento facciale viene usato per la sicurezza di ospiti e dipendenti. Ma chi è finito sulla black list lo definisce «un pretesto per punire collettivamente gli avversari della multinazionale».

Innovazioni tecnologiche, intelligenza artificiale, connessioni sempre più potenti, raffinate tecniche di machine learning e deep learning degli algoritmi stanno fornendo alle agenzie governative, oltre che a operatori economici privati, la possibilità di raccogliere più dati che mai sulle nostre esistenze. Si chiamano «Big data» ma si traducono in una massiccia raccolta di abitudini e stili di vita. Quella che gli strateghi del marketing chiamano «profilatura», in un futuro non remoto potrebbe fare rima con «schedatura». Senza politiche e supervisione adeguate dei governi, la raccolta eccessiva di dati può minacciare le libertà civili. Nessuno è al riparo dall’intrusione digitale nella quotidianità, dai villaggi africani alle metropoli occidentali. Ne è convinto Aman Jabbi, un ingegnere indiano che per 25 anni ha lavorato nella Silicon Valley, un pioniere delle fotocamere e 3D camera per smartphone. Oggi la sua missione è sensibilizzare cittadini e istituzioni sul potenziale oscuro della tecnologia di «facial recognition». Soprattutto nelle nuove città digitali: le avveniristiche «smart cities» che rivoluzioneranno gli spazi urbani e il modo in cui ne fruiamo. Gli esperti di Frost & Sullivan prevedono che entro il 2050 oltre l’80 per cento della popolazione dei Paesi sviluppati vivrà in aree urbane e che le «città intelligenti» creeranno enormi opportunità di business. Il mercato europeo dell’e-hailing, la possibilità di prenotare un taxi utilizzando un’app, genera già ricavi pari a 50 miliardi di dollari. Entro il 2025 dovrebbe raggiungere i 120 miliardi.

Per stare all’Italia, secondo il Rapporto annuale ICity Rank che analizza la classifica dei 108 comuni capoluogo più «smart», si evidenzia una progressiva crescita digitale media di questi luoghi: la copertura di servizi online è passata dal 41 per cento nel 2019 all’82 nel 2022 mentre il flusso di transazioni tramite PagoPA è raddoppiato rispetto al 2021. Il «grado di copertura» delle app in un anno è salito dal 57 al 66 per cento. Possiamo immaginare che la città del futuro sarà ispirata al modello «virtual Singapore»: edifici automatizzati, robot docenti a scuola, veicoli a guida autonoma, sensori che controllano il traffico, autostrade per droni, servizi di sanità digitale governati dall’Ai e negozi dotati di chatbot che rispondono ai clienti 24 ore al giorno, anche da remoto.

Nelle smart cities, spuntate come funghi dagli Emirati all’Australia, tutto promette di essere rapido, sicuro, confortevole, progettato su misura per le esigenze umane e dell’ambiente. Monitoraggio dell’inquinamento e dei flussi del traffico stradale, prevenzione della criminalità, uso più sostenibile degli elettrodomestici. Ma dietro l’abbaglio di queste metropoli paradisiache, c’è il rischio di precipitare in altrettante «prigioni digitali»? È la definizione coniata da Jabbi, co-fondatore di due startup digitali e pilota, per definire la nuova polis high tech, (ri)progettata sui pilastri della Quarta rivoluzione industriale. Città a zero emissioni, carbon-free e per questo ribattezzate NetZeroCities. Dove tutto avrà un’identità digitale, inclusi oggetti e alberi, e nelle cui infrastrutture si annidano silent weapons, armi silenziose, «per sorvegliare, ascoltare, tracciare gli spostamenti delle persone e razionare tutta l’energia del pianeta» spiega Jabbi via whatsapp.

Nelle sue presentazioni video, illustrate anche a Shenzhen, in Cina, oltre che negli Usa dove risiede, ci sono passaggi inquietanti. Tra questi, un’immagine che mostra una gigantesca «torcia» elettrica in cima a un palo: un Led incapacitator, tecnologia di difesa sviluppata nel 2007 da un’azienda californiana su incarico del Dipartimento per la Sicurezza interna, in grado di far pulsare la luce su lunghezze d’onda che cambiano rapidamente, inducendo nei bersagli «disorientamento, nausea e vomito». Onde ad alta frequenza in grado di colpire chiunque, nel raggio di centinaia di metri, provocando pressione intracranica, dolori alla spina dorsale e altri danni fisici.

«Entro il 2030 in tutto il mondo saranno attivi oltre 600 milioni di pali intelligenti (smart poles), dotati di dispositivi wireless multifunzionali e di microfoni per dare istruzioni ai conducenti, come già avviene a Melbourne. Ovunque, saremo bersagliati da luci abbaglianti che cancelleranno la notte» denuncia Jabbi. «Questi apparati elettromagnetici saranno alimentati da grandi torri di ricarica, molti avranno telecamere per il riconoscimento facciale. E in cima stazioni di ricarica per i droni, la nuova polizia dei cieli, che saranno collegati tra loro in wireless e con la Rete. È l’internet delle cose». Una realtà che evoca megalopoli come quella dei film Blade runner e Minority report.

Tutti questi dispositivi, per Jabbi, sono di fatto «l’infrastruttura della sorveglianza e saranno usati per obbligare i popoli all’obbedienza». Per l’esperto ribelle, definito da alcuni un «whistleblowing» dell’A.i., si sta costruendo una sorta di Panopticon digitale, identico alla rete di videosorveglianza nelle carceri, «ma dove i sorveglianti umani saranno rimpiazzati dall’intelligenza artificiale». L’architettura di tutto il sistema «è l’imposizione di una identità digitale planetaria come modello di un nuovo contratto sociale, che nessuno ha mai sottoscritto né richiesto». L’identità digitale sarà autenticata attraverso il riconoscimento facciale, che «diverrà la chiave per sbloccare il tuo accesso alla vita e questa chiave sarà legata a un nuovo sistema finanziario, il Central bank digital currency (Cbdc), un mix di crediti ecologici, socialie rispetto delle prescrizioni di vaccini. Questo sistema di “capitale reputazionale” sarà basato su un cyberprotocollo chiamato ZeroTrust, che si lega alle smart cities perché il tuo volto verrà tracciato a ogni spostamento e il tuo credito sociale, che ti seguirà ovunque, sarà aggiornato in tempo reale, per esempio in base al rispetto del distanziamento sociale, e potrà essere bloccato finché non ti rimetterai in regola» conclude Jabbi.

Se l’introduzione dell’identità digitale è giustificata da intenti come la salvaguardia dei propri dati e la protezione del pianeta, ciò ne offusca però la componente puramente lucrativa per le aziende, che da tempo stanno monetizzando la compravendita dei Big data, tra cui i dati biometrici e persino emozionali delle persone. Bambini inclusi.

Nel suo libro Viaggio nel futuro – verso una nuova era tecnoumana, il divulgatore digitale Angelo Alù evidenzia: «Il valore di mercato delle città intelligenti raggiungerà i 2 trilioni di dollari entro il 2025, consentendo alla capacità innovativa delle prime 600 città del mondo di generare il 60 per cento del Pil globale». Dura la sua denuncia sui potenziali rischi per i cybercitradini globali: «La privacy digitale è sotto assedio. Si registra un preoccupante scenario di sorveglianza su larga scala e gli utenti sono esposti al pericolo di generalizzati controlli per effetto di sofisticati spyware sempre più invasivi e in grado di monitorarci 24 ore su 24».

Alù cita il rapporto dell’Onu Il diritto alla privacy nell’era digitale, in cui si ipotizza una moratoria sull’uso e sulla vendita di strumenti di «hacking» invasivi. «Lo spazio virtuale sta assumendo i tratti di un campo minato: prende forma il lato oscuro della Rete con l’avvento dell’«autoritarismo digitale» caratterizzato dall’uso pervasivo di sistemi automatizzati di controllo in grado di erodere le libertà individuali» conclude l’autore, già consigliere della Internet society Italia. «Le Nazioni Unite ritengono che la sorveglianza pubblica sia stata indebitamente usata e subordina l’applicazione dei sistemi tecnologici di sorveglianza alla condizione che le relative misure adottate siano sempre necessarie e proporzionate». Basterà un monito dell’Onu per disattivare le invisibili gabbie digitali intorno a noi?

© Riproduzione Riservata