Tutto è cominciato con Donna Summer (prodotta dall’italiano Giorgio Moroder). Da lei sono partiti i deejay, i ritmi da dance floor e le contaminazioni di tutti gli altri generi che, ancora oggi, ne sono debitori. Un libro sulla «black queen» ripercorre le tappe di questa rivoluzione pop.
Sedici minuti e 50 secondi per conquistare il mondo. Con una sola lunghissima canzone: erotica, sensuale, un capolavoro disco music costruito su cinque parole (Love to Love You Baby) ripetute a cadenza regolare, tra gemiti e amplessi simulati a lume di candela. Lei, LaDonna Gaines da Boston, in arte Donna Summer, stesa sul pavimento dei MusicLand Studios di Monaco di Baviera. Dall’altra parte del vetro della sala di incisione Giorgio Moroder e Peter Bellotte, i suoi producer, spettatori increduli della nascita del primo vero grande hit da discoteca. Il primo di un genere che ha ispirato la dance contemporanea, fatto di brani immortali cliccati ancora oggi milioni di volte ogni settimana sulle piattaforme streaming.
Centocinquanta milioni di album venduti, cinque Grammy Awards, un Oscar, decine di hit che hanno scalato nel tempo le classifiche mondiali. Ha prestato la sua voce al soul, al jazz, alla psichedelia hippie e anche al rock con l’indimenticabile Hot Stuff, Donna Summer, che prima di diventare la regina della dance, aveva brillato nella versione europea del musical Hair. Una vera artista e non una meteora, svelata come mai prima d’ora nel libro Donna Summer, la voce arcobaleno. Da disco queen a icona pop (Coniglio Editore), scritto da Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano.
«Questo è il sound del futuro». Lo disse David Bowie a Brian Eno dopo aver ascoltato una sola volta I Feel Love, la canzone di Donna Summer che ha cambiato per sempre il corso della musica contemporanea facendo sparire dagli studi di registrazione gli strumenti tradizionali: solo sintetizzatori collegati a un pc e la voce di Donna. Una trasformazione epocale, orchestrata da un italiano di Ortisei, Giorgio Moroder, ribattezzato «The Godfather Of Disco Music». L’incontro perfetto tra l’evoluzione tecnologica del suono e l’irresistibile ascesa Seventies della disco music. Che a sua volta, come il punk in Europa, sempre in quegli anni, è stata pura rivoluzione: un suono nato negli scantinati newyorkesi che ha scardinato i piani marketing delle case discografiche, la programmazione radiofonica e i cliché della critica musicale. Un’onda irresistibile di 45 giri e album che hanno oscurato tutto quel che c’era prima imponendo il suono e lo stile del dancefloor.
Nasce dal basso la disco fever, nei quartieri multietnici delle metropoli americane popolati da ispanici e afroamericani. È musica black, che attinge dal patrimonio del soul, del funk e della musica africana. Una versione accelerata del suono che già c’era, perfetta per riempire le piste da ballo di tutto il mondo. «Dal weekend danzante davanti al jukebox si passa ai primi artigianali dancefloor, dove la colonna sonora è opera non di una macchina stipata di 45 giri, ma del deejay che sceglie e seleziona i brani» racconta Giovanni Savastano.
Prima di arrivare al leggendario Studio 54 di Manhattan si passa dalle cantine occupate abusivamente, dai club della comunità gay, dal mitico appartamento privato con terrazza, The Loft, trasformato in disco club ante litteram dal suo proprietario, il deejay David Mancuso al 647 di Broadway. «È stato il pubblico delle disco night a trasformare il mercato. I gusti delle minoranze sono diventati mainstream. La gente dopo aver fatto le ore piccole al The Loft di Mancuso si metteva in fila davanti ai negozi di dischi per comprare i 45 giri dei brani che aveva ballato qualche ora prima» spiega Andrea Angeli Bufalini.
Quando Gloria Gaynor e Barry White irrompono nelle classifiche ufficiali a inizio anni Settanta, l’intera filiera del music business è impreparata. Nell’era delle grandi rock band, dell’impegno sociale, dei cantautori-intellettuali, una versione più ballabile della gloriosa black music dei Sessanta stravolge le regole del gioco e della comunicazione. «A volte il volere del pubblico è più forte di quello dei media» commenta Donna Summer. Nel mercato musicale codificato e immobile dell’epoca irrompe il peso specifico del deejay radiofonico che a suon di disco music scombina la sacra liturgia dell’airplay sempre uguale a se stesso, incline ad assecondare i desideri delle major. Un esempio su tutti: Frankie Crocker, da Buffalo, New York, che ogni sera, a mezzanotte in punto, risvegliava l’eros dei suoi ascoltatori mandando in onda per intero i 16 minuti e 50 secondi di Love to Love You Baby. La sessualità e l’erotismo declinati al femminile ben prima di Madonna e Lady Gaga.
Quasi obtorto collo, il sistema dell’entertainment ingloba il fenomeno nei suoi ingranaggi. La febbre del sabato sera, i successi mondiali dei Bee Gees, le sempre più frequenti incursioni dei gruppi rock in area disco (vedi i Rolling Stones del brano Miss You) spingono il genere sul tetto del mondo. Ma questa è solo una faccia della medaglia. «A fine anni Settanta» raccontano gli autori del libro dedicato a Donna Summer «la disco music viene temporaneamente seppellita da una campagna d’odio senza precedenti che coinvolge media, radio e un po’ tutti gli attori del mercato musicale. Una sorta di vendetta nei confronti di un genere che aveva osato troppo, che aveva dato voce a chi non ne aveva. La campagna “disco sucks” culmina nella “demolition night” del 1979 allo stadio Comiskey Park di Chicago, quando migliaia di spettatori di un match di football, incitati dal deejay Steve Dahl, distruggono centinaia di vinili “disco” nell’intervallo della partita».
E in Italia? Anche qui la disco music aveva e ha molti fan tra la gente, ma nessun sostegno da parte della critica e delle riviste musicali. Pregiudizi e atteggiamenti snob che hanno accolto Donna Summer al suo arrivo in Italia nel 1977: «Durante la sua prima conferenza stampa nel nostro Paese qualche giornalista che non credeva fosse sua la voce che compariva nei dischi, le chiedette di cantare a cappella un estratto di Love to Love You Baby. Giorgio Moroder le passò il microfono e lei si mise a cantare. A quel punto scoppiò un applauso…».
