Con Anish Kapoor alla sua mostra Untrue, Unreal, a Firenze. Tra le architetture rinascimentali di Palazzo Strozzi, sculture inquiete e visionarie superano le consuete coordinate di tempo e di spazio. E schiudono dimensioni parallele: a partire dalla nostra interiorità.
Quando all’improvviso appare nella sala di Palazzo Strozzi, davanti ai suoi specchi concavi, Anish Kapoor, il più importante scultore vivente, sembra quasi piccolo. Una giacca di velluto color lichene islandese e occhiali bordati con la stessa nuance di verde. E nulla di più, neanche l’orologio. Come se il tempo per lui si fosse perduto nei suoi celebri vuoti scuri. L’artista di origini indiane, nato da madre ebrea irachena e padre indiano originario del Punjab («Entrambi erano rifugiati e si incontrano a Mumbai. Lei era una sarta poverissima, lui veniva da una famiglia agiata»), ha appena inaugurato una sontuosa mostra negli spazi di Palazzo Strozzi, a Firenze. Untrue, Unreal, a cura di Arturo Galansino, è un viaggio nell’inconscio, dentro una realtà negata, mistificata, dove labile è il confine tra ciò che è vero o verosimile. E dove il rosso, secondo l’artista, è il centro: «È il colore dell’interno dei nostri corpi».
Le sue opere inquietanti, misteriose, viscerali si susseguono nell’infilata di sale cinquecentesche. Il marmo incrostato dalla cera color sangue, il silicone che ricorda le interiora di un corpo sventrato, pesanti pietre ricoperte di pigmenti «Blu Klein» diventano angeli caduti dal cielo. «Gli oggetti sono definiti dalla loro pelle. Altri artisti dicono che siano determinati dal peso o dall’aspetto. Per me non è così. È ardesia, ma il semplice fatto di ricoprirla di blu mi fa pensare che non appartenga più a questo livello, ma a uno superiore. È un processo intellettuale emotivo». Emotivo e destabilizzante, perché per lo scultore, «la perdita di sé è la nostra paura più grande».
Più tardi, a cena nel ristorante Irene dell’Hotel Savoy, Kapoor accompagnato dalla giovanissima e bella fidanzata, davanti a un risotto allo zafferano racconta a Panorama quanto l’architettura rinascimentale sia stata difficile da affrontare, quasi da litigarci, e come le opere in mostra, a cominciare dai primi lavori dell’81, abbiano saputo anticipare i nostri tempi, che definisce «Tristi e confusi». «Tutto è cambiato negli ultimi cinquant’anni. In Inghilterra, dove vivo, gli effetti della Brexit si stanno rivelando devastanti. San Francisco ormai è il simbolo della fine del “sogno americano”, ridotta a una metropoli di senzatetto, dove vaga una moltitudine che ha perso il lavoro, zombie annegati nella droga che non sanno come dare da mangiare ai figli. Signori, questo è il capitalismo. Eppure, ciò che mi spaventa di più è la povertà culturale che ci ha portato qui».
Un cupio dissolvi, dove però l’Italia si salva: «Ho grande fiducia nel vostro Paese. Amo Venezia e vi trascorro lunghi periodi. Da voi la cultura si trova in ogni cosa, dall’arte al cibo». Per non smentirsi ha comprato il meraviglioso Palazzo Manfrin a Cannaregio, che sarà la sede della sua fondazione. «Venezia è nello stesso tempo un piccolo villaggio e una città cosmopolita. Antica e moderna. Camminando tra le calli qualche settimana fa mi sono fermato davanti a una chiesa e sono rimasto incantato dalla scultura di una Madonna. Sono anni che vivo in Paesi protestanti, dove nella religione è bandito il femminile. Mentre voi avete una relazione profonda con il divino femminile. Questo manca ai protestanti, e non solo. Si mangia malissimo in quei Paesi» afferma mentre infilza un gamberetto grigliato e perfettamente arrotolato, come una delle sue tondeggianti sculture lucenti.
«C’è una frase di Martin Heidegger che dice: “L’interno del vaso è più grande del vaso stesso”. Se chiudiamo gli occhi cosa vediamo dentro di noi? Qualcosa di molto più vasto del corpo che lo contiene. È un’idea che può confondere, su cui ho riflettuto a lungo. Trovo molti richiami, da quello sessuale all’oscurità dell’inconscio. Se penso a cosa è il vuoto, ripenso alle parole del filosofo tedesco, all’interno del vaso, al buio che non ha una dimensione netta, al pericolo che ci confonde. Ai confini che spariscono». Il vuoto è una condizione di inizio, mai di fine. Kapoor costruisce buchi neri che ci attirano, inesorabili. Una volta un turista italiano cadde dentro un’installazione in Portogallo, curioso di provare la Discesa nel Limbo (così il titolo). E finì all’ospedale. «L’oscurità è senza forma. Non c’è niente di più scuro del nero interiore». Il nero più nero viene creato grazie all’uso che l’artista fa del Vantablack, materiale innovativo costituito da nanotubi di carbonio, che assorbe la luce al 99,6 per cento così da rendere invisibili i contorni dell’oggetto.
Intanto viene servito un luminoso brasato al Barolo, Kapoor confessa: «Non sono vegetariano». E continua: «Ultimamente amo questi versi di Paul Valéry: “Una cattiva poesia è quella il cui significato svanisce”. Anche l’arte è così. Quella immortale vive tra gli spazi di confine: tra l’essere e il non essere. Per questo ritengo che sia necessario non avere un messaggio da dare e lasciare che sia il lavoro a emergere». L’opera che emerge in modo più potente è senza dubbio Svayambhu che in sanscrito significa «sorto da sé». Come una macchina di Leonardo, si muove lentamente su un binario. Un mastodontico blocco di cera rosso sangue che si infrange su una porta (protetta e rivestita, rassicura il curatore). «Non è stato affatto facile lavorare dentro Palazzo Strozzi. L’idea era in parte di seguire il flusso ininterrotto di stanze, ma anche di interromperlo. Per me era importante il modo come il corpo si interfaccia con qualcosa che va oltre l’immagine. È questo che ci porta al nostro spazio interiore, profondo. Mi sono ispirato al quadro di Caspar David Friedrich, al viandante di spalle che guarda l’altrove, oltre la nebbia».
Sembra di sentire il profumo della pipa di Sigmund Freud che aleggia felice. Glorioso è l’omaggio al padre della psicanalisi. Ogni stanza racchiude i simboli di una sessualità dolorosa, cupa, edipica. Una vagina ornata da chiodi d’acciaio troneggia tra carnose sculture di silicone che ricordano corpi squartati. Dal pavimento emergono funghi lisergici ricoperti di pigmenti colorati come quelli delle sacre feste indù, mentre una colonna fallica rossa trafigge il soffitto. C’è un titolo enigmatico, Tre giorni di lutto, cosa significa? «È il tempo necessario perché qualsiasi dolore possa diventare sopportabile. La mente e il corpo si piegano, si adattano alle atrocità. Mi ispirai ai prigionieri dell’Ira. Oggi questo lavoro racconta molto di ciò che stiamo vivendo».
Dopo qualche calice di bianco, abbandonata la giacca verde muschio, torna a parlare dei suoi specchi. O meglio, l’orrore degli specchi, come scriveva Jorge Luis Borges. «Un giorno, mentre lavoravo su uno spazio scuro, mi sono chiesto cosa sarebbe successo se avessi provato a riempire quello spazio di specchi. È un progetto molto specifico. Se uno pensa a un quadro, tutto ciò che vediamo accade dentro, invece, guardando in uno specchio tutto avviene davanti. Così si rovescia la tipica prospettiva rinascimentale. Nella storia dell’arte le superfici riflettenti sono presenti dal tempo degli etruschi, ma quelle concave sono molto rare».
È un lavoro complicatissimo e molto costoso: «Basta una piccolissima imperfezione, un microscopico graffio per rovinare tutto. Ci sono voluti non solo anni, ma anche le persone giuste. E il buono in questo caso non è mai abbastanza buono». A questo punto, prima di lasciarsi andare a un tiramisù al limoncello capace di fugare ogni dubbio metafisico, resta da chiedergli quale sia il suo percorso per superare quel vuoto-pieno che lo ossessiona: «La mia pratica è creare un’opera al giorno. Non mi piace mostrare i miei lavori, li tengo chiusi per almeno sei mesi nello studio. E mi chiedo: sarà abbastanza buono? Mi ci sono voluti anni per definirmi “artista”, non ce la facevo proprio. Per me restavo solo uno scultore che ogni mattina si domandava se avesse fatto qualcosa di valido».
La star dell’arte contemporanea che si mette in discussione è davvero untrue, unreal, è inverosimile, irreale? «Vede, Picasso fece circa 50 mila lavori nel corso della vita e sicuramente qualcuno non era eccellente. Succede anche ai grandissimi. Fare un’opera al giorno non è facile, ma questa è la mia pratica, non importa se è valida o meno, per me è significativo evolversi. Alla fine, ci tengo a dire che non ho messaggi da dare. Ci sono tantissimi artisti che di messaggi ne mandano anche più del necessario. Io invece non ho niente da dire».
