Rai. Dateci una fiction molto scorretta
Televisione

Rai. Dateci una fiction molto scorretta

Oggi sono tutte politically correct, in odore di buonismo sinistrorso. Ultimo esempio è quella su Dalla Chiesa, meglio non è andata con «La grande famiglia», il comunista nonno Libero...

Di tutte le 50 sfumature, la fiction italiana ne conosce solo una: il politically correct. E il benvenuto, adesso, nel panificio ideologico è Michele Santoro. Il giornalista torna in Rai come regista di uno sceneggiato, Irving contro Lipstadt. È la ricostruzione del processo che si celebrò alla Royal court of justice di Londra nel 2000. David Irving, storico del nazionalsocialismo, fu diffamato dalla collega Deborah Lipstadt. Condannato, fu poi in carcere per 400 giorni e marchiato a vita: il mostro in assoluto. Gioco facile in questa operazione santoriana perché, infine, la storia, per tramite di tv, è pura pedagogia.

Ogni istruzione ha un metodo, magari Santoro presenterà il suo progetto al RomaFictionFest (30 settembre, 5 ottobre) e «il diavolo» si sa «sta nei dettagli». Lo ha ricordato Marco Gorra su Libero. E se l’ansia ammaestrante un po’ deriva da riflesso condizionato da parte di autori e registi, padroni della coscienza collettiva, un po’ ci marcia, e non poco, la regola arciitaliana: riparo. Fatto sta, scrive Gorra guardando su Canale 5 il 3 settembre scorso il film di Vittorio Sindoni con Giancarlo Giannini su Carlo Alberto Dalla Chiesa, che il generale «a un certo punto li arresterà pure con le cattive, però i brigatisti li capisce pure perché, dice, “anche io ho un figlio comunista”».

Per essere compiutamente telegenico Dalla Chiesa è pittato come «illuminato e non sordo alle genuine istanze della lotta di classe». Un personaggio positivo, monodimensionale e de sinistra.

Anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel melodramma, sono uccisi dalla mafia che è sì cattiva, ma per conto di altri cattivi: i poteri occulti, la P2, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (o degli Andreotti).

Per carità di patria non ricordiamo nonno Libero lettore dell’Unità (nel frattempo che i pedofili, nel Medico in famiglia, leggevano Il Giornale), non mettiamo becco sul fatto che solo dopo 10 anni ci sarà lo sceneggiato Rai sul commissario Luigi Calabresi (di Graziano Diana, interpretato da Emilio Solfrizzi); e sempre per la patria abbassiamo il tono della polemica e scriviamo sottovoce: se ritardo c’è stato nel raccontare questa pagina nella tv di stato, è stato per un riguardo verso gli assassini.

Una sola sfumatura. Vale per Rai e per Mediaset. Come pure coi governi di centrodestra e di centrosinistra. Nella storia della tv italiana, fatta tara di due sole eccezioni, ovvero Il giovane Mussolini di Gianluigi Calderone, voluto da Bettino Craxi, con Antonio Banderas nel ruolo del Duce, quindi Il cuore nel pozzo di Alberto Negrin, attraverso cui gli italiani sono venuti a conoscenza delle foibe (non senza gli anatemi, da sinistra, contro Leo Gullotta, protagonista), pure Giovanni Paolo II, nelle serie televisive generaliste, con tutti quei tedeschi (sembrava che Karol Wojtyla avesse fatto crollare l’Urss durante il suo pontificato, non il Terzo Reich…), viene raccontato in modi così politically correct da assomigliare più a un partigiano che a un pontefice.

Fosse solo la politica. È la vita quotidiana che traccia il solco e sono le lenzuola a difendere la maturità civile dell’italiano nel segno dell’inquisizione. Viale Mazzini ha affidato a Eleonora Andreatta, nuovo capo della Raifiction, una precisa missione editoriale: «Storie sempre più legate alla contemporaneità, ai nostri giorni, alle nuove tipologie di famiglie». Grazie a Una grande famiglia, un successo dello scorso anno di Ivan Cotroneo, lo spettatore ha potuto compenetrarsi nell’iniziazione del giovanotto alle prese con l’operaio, prodigo di baci. Carta canta e con questa mission è chiaro che i due ragazzi, se non proprio alle nozze, convoleranno a corale giubilo.

La tv non ha fatto gli italiani, però li ha svezzati. Tutti pronti per Questo nostro amore. Con Neri Marcorè e Anna Valle. Hanno tre figli non possono sposarsi. Uno dei due lo era già, non c’era il divorzio nel ’60 e, insomma, l’Italia non era ancora telegenicamente emancipata. Ci sarà tempo. Questione di sfumatura.

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