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Alla fiera dell’ipocritamente corretto

Alla fiera dell’ipocritamente corretto

Tra «coming out» in diretta tv di personaggi mediatici e battaglie all’ultimo like sui diritti civili da parte di influencer per non parlare delle polemiche «di genere»… In Italia l’ossessione del politically correct fa danni. E confonde legittime rivendicazioni con furbe riletture della realtà. Senza temere lo sprezzo del ridicolo.


«La Cancel culture è un nemico immaginario». Secondo l’esploratrice dell’ovvio Michela Murgia il vento impetuoso che arriva dai campus californiani per ridefinire il linguaggio, abolire i simboli di un passato controverso e imporre la legge del politicamente corretto non esiste. In Italia è una brezza lieve che agita i lembi dei foulard di Hermès di signore radical sbilanciate verso l’ultimo «charity lunch». Anche molti debunker (curiosa genìa giornalistica che, non avendo notizie proprie, si diletta a smontare quelle altrui) tendono a minimizzare, gettando «l’approccio isterico» sulle spalle d’una società impegnata a conservare privilegi fuori dal tempo.

Rassicuràti dal fatto che il nostro Paese non si fa condizionare dagli isterismi americani, andiamo a leggere le notizie. Lo storico Alessandro Barbero è stato vittima di una bufera social per avere detto che «le donne hanno meno successo degli uomini sul lavoro perché mancano di aggressività, spavalderia, sicurezza». Ha subìto accuse di sessismo in purezza, nessuna pietà per lui anche se l’uscita dimostra che negli ultimi 15 anni non ha mai lavorato con una donna.

Il museo Lombroso di Torino ha rischiato la chiusura su richiesta del senatore Saverio De Bonis, ex Movimento 5 Stelle eletto nel collegio di Potenza, per «razzismo scientifico». Il parlamentare ha presentato un’interrogazione al ministro della Cultura, Dario Franceschini, per sapere «quali iniziative intende intraprendere perché, quanto rappresentato nel museo dedicato a Lombroso per avvalorare le sue insensate e balorde teorie, venga smentito».

L’ipocritamente corretto è liquido, si insinua facilmente negli anfratti. Anche in tv, dove il controllo sulla violenza di genere è diventato severissimo e il programma Tale e quale Show è stato accusato di «blackface» (assumere le sembianze di una persona con la carnagione diversa dalla propria) in alcune esibizioni canore. Se le tendenze diventassero dogmi, il cinema italiano andrebbe incontro a mutilazioni dolorose. C’è chi ha chiesto di eliminare dai palinsesti il principe De Curtis con il lucido da scarpe sul volto in Totòtruffa, gli sberloni di Alberto Sordi a Monica Vitti in Amore mio aiutami, quelli di Giancarlo Giannini a Mariangela Melato nell’azzurro mare d’agosto.

Poi ci sono le statue, che stanno ferme ma muovono le viscere inquiete. Quella di Gabriele D’Annunzio a Trieste, inaugurata due anni fa nel centenario dell’impresa di Fiume, è stata imbrattata di vernice gialla da una coppia di incappucciati. Il gesto arriva dopo gli exploit cromatici (vernice rosa poi rossa) contro il monumento in bronzo dedicato a Indro Montanelli a Milano, bersaglio di centri sociali e associazioni che ne hanno chiesto la rimozione per sessismo e razzismo. Al grande giornalista non vengono perdonate la partecipazione alla campagna coloniale d’Abissinia e l’episodio della sposa-bambina. Una statua alternativa realizzata dall’artista di strada Cristina Donati Meyer, con Montanelli che reca in braccio un fantoccio di colore al posto della «Olivetti lettera 22», è stata installata nella collezione permanente del museo (pubblico) Mudec. Motivazione surreale della direttrice Anna Maria Montaldo: «Nessuna censura». Tranne che al 99 per cento della vita di Indro. Effettivamente la Cancel culture da noi non esiste.

Nel 2020, dopo una gogna social, la casa automobilistica Lamborghini è stata costretta a ritirare una campagna pubblicitaria controversa, firmata dalla fotografa Letizia Battaglia. Lei è una fuoriclasse, la prima donna europea a ricevere il premio Eugene Smith, istituito per ricordare il fotoreporter di Life. Il reportage mostrava le supercar bolognesi accanto a ragazzine adolescenti, con sullo sfondo i monumenti di Palermo. Qui è fondamentale puntualizzare. La dittatura del politicamente corretto è la degenerazione di un principio. Il rispetto per l’altro (per il minore, il diverso, il disabile, le minoranze senza voce) è un punto fermo della società moderna, dell’Occidente dei valori che crede nella forza evocativa della civiltà. Ma l’imposizione della correctness come pensiero unico, quel venticello di ipocrisia che si fa legge, sta diventando una camicia di forza. Qualcosa di disturbante che il romanziere americano Brett Easton Ellis, nei suoi libri campione assoluto di trasgressione e posizioni culturali non conformi, riassume così: «Il pensiero dei buoni è inclusivo con tutti, tranne con quelli che osano fare domande».

Il luogo dei grandi interrogativi è la scuola. Qualche anno fa Angelo Panebianco dovette entrare sotto scorta all’Università di Bologna per tenere lezione; i collettivi studenteschi contestavano i suoi editoriali sul Corriere della sera, ritenuti fascisti. Più recentemente all’Università Statale di Milano, il docente di Storia delle dottrine politiche Marco Bassani è stato sospeso per un mese dopo una tempesta social. L’accusa: aver condiviso sul profilo Facebook un post ritenuto sessista contro Kamala Harris. Al suo collega Marco Gervasoni è andata peggio e ha perso il posto di lavoro. Dopo un commento contro la comandante della nave Ong Sea Watch, Carola Rackete, l’ateneo confindustriale della Luiss ha deciso di non rinnovargli il contratto.

Un gesto oscurantista ha invece portato fortuna al fisico Giorgio Parisi, vincitore del Nobel. C’era anche la sua firma sotto la richiesta di impedire, in nome della laicità, all’allora papa Joseph Ratzinger di tenere una conferenza alla Sapienza. Ma la Cancel culture non esiste.

Cancellare le uscite politicamente scorrette diventa facile, come cancellare il volto di Giorgia Meloni dalla copertina della sua biografia presentandola a testa in giù (evocativo di piazzale Loreto). O eliminare i due generi presenti in natura con lo schwa. La «e» rovesciata, la vocale che non esiste, è entrata ufficialmente a far parte del linguaggio amministrativo nei comunicati in rete del Comune di Castelfranco Emilia. Esulta il sindaco arcobaleno Giovanni Gargano: «La pandemia ci allontana, così abbiamo provocato un messaggio di avvicinamento».

Mentre intorno a noi è tutto un coming out pubblico in chiave gay (dall’ex ministro Vincenzo Spadafora al giornalista Alberto Matano), il nemico bianco-etero non se la passa benissimo. Neppure nei santuari della cultura, dove la dialettica democratica è affidata a titani del pensiero come i Ferragnez da una parte (Fedez ambirebbe a candidarsi alle prossime elezioni) e Pio e Amedeo dall’altra.

L’unica ad avere intuito i vantaggi della stupidità altrui è Elisabetta Sgarbi. Negli Stati Uniti nessuno voleva acquistare i diritti dell’autobiografia di Woody Allen (A proposito di niente), finito nel tritacarne dopo il delirio del #Metoo nonostante due sentenze a favore. Lo ha fatto lei. È il colpo editoriale dell’anno.

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