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Cuba: la scommessa di Barack Obama

Cuba: la scommessa di Barack Obama

Il presidente americano vuole consegnare alla Storia il disgelo con l’Isola dei fratelli Castro. Ci riuscirà?

Non fosse che Fidel è ancora vivo e le mura de L’Avana sono ancora ricoperte di murales che ineggiano alla Revoluciòn, potremmo dire che Cuba è ormai da decenni un Paese post-comunista dove già oggi 400mila persone sono impiegate nel settore privato, decine di società straniere partecipano a imprese commerciali o gestiscono tenute agricole e persino i dissidenti come Yoani Sanchez possono pubblicare fogli di opposizione online senza timore che qualche sgherro del regime li sbatta in galera come spie della Cia.

Non fosse che camminare per l’Habana vecchia è un po’ come visitare un museo dove il tempo si è fermato agli anni 60 per poi ritrovarsi, voltato l’angolo, in un bar che potresti trovare sulla Fifth Avenue di New York, l’intenzione di Obama di aprire l’ambasciata americana a L’Habana entro aprile è ancora oggi, paradossalmente, un motivo di dissidio, di pugne, di lotte parlamentari nel Congresso statunitense, tra lobby, dentro e fuori dall’Isola.

LA DIFFICILE TRANSIZIONE
Rimane il problema di una transione ordinata e pacifica a un sistema più aperto e dinamico di cui Cuba, dopo il crollo dell’Urss, ha disperatamente bisogno. L’ipotesi di un trapasso morbido a un sistema diverso, ma pur sempre gestito dal Partito comunista, appare nel lungo periodo come difficilmente sostenibile. Il modello cinese, per un Paese che è a un tiro di schioppo dalle coste americane e che non ha le stesse risorse dell’Impero cinese, appare oggi, secondo gran parte degli analisti dei laboratori strategici occidentali, come difficilmente praticabile, almeno nel lungo periodo. Come difficilmente praticabile appare un passaggio violento alla russa, dove la tradizionale nomenklatura comunista si reinventò oligarchia economico-finanziaria, saccheggiando negli anni 90 gran parte della ricchezza nazionale dell’ex impero rosso.

C’è poi da tener conto che il passaggio a un regime multipartitico come chiedono gli Stati Uniti da quasi mezzo secolo di per sé non è garanzia di apertura, né di democrazia: in America Latina esiste un termine – democradura (democrazia formale e dittatura) –  che descrive bene lo stato miserevole in cui versano molti Paesi latinoamericani. È quello che vogliono i liberali americani?  

LA SCOMMESSA DI OABAMA
Il nazionalismo cubano alla José Martì, unito a una storica diffidenza verso le pretese imperiali degli yankees, è l’unica eredità forte dell’epoca castrista che sopravvive anche tra le nuove generazioni di cubani. La questione è come facilitare la transizione senza pretendere, fuori tempo massimo, lo scalpo dell’avversario. Raul e Barack, in modi diversi, si sono dimostrati pragmatici e realisti. Ma i nostalgici, negli Stati Uniti e a Cuba, sono ancora molti e possono imporre ancora qualche stop a questo processo di disgelo che nel lungo periodo appare come irreversibile. Obama, comunque, ha fretta e vuole mettere il Congresso in mano ai repubblicani di fronte al fatto compiuto. Prima di terminare il mandato, vuole consegnare ai posteri due risultati che da soli consegnerebbero la sua presidenza alla Storia: il disgelo con Cuba e con l’Iran, storici nemici degli Stati Uniti. Ci riuscirà? Se ce la facesse sarebbe un piccolo grande capolavoro politico.

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