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I rivoltosi del Covid

I rivoltosi del Covid

Secondo gli ultimi esiti investigativi, le sommosse nelle carceri avvenute tra il 7 e il 9 marzo 2020 non erano soltanto legate alle restrizioni del lockdown. Registi occulti degli scontri la camorra e le mafie locali.


Come uno scenario sudamericano. Ognuna delle inchieste sulle rivolte negli istituti penitenziari italiani sta contribuendo a rendere più nitida la situazione ingovernabile che i detenuti di 49 strutture detentive su 194 totali erano riusciti a provocare durante il lockdown del 2020, quando il Dap, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, era guidato da Francesco Basentini, dimessosi qualche settimana dopo anche a seguito delle polemiche innescate dall’interpretazione di una contestata circolare che rispedì a casa molte decine di boss mafiosi.

La Procura nazionale antimafia avviò, su impulso del procuratore Federico Cafiero de Raho, un’attività di monitoraggio sul percorso normativo e giudiziario che rese possibile quelle concessioni a esponenti delle più pericolose organizzazioni criminali. Un’attività che pare essersi incrociata subito con quella delle rivolte. Negli uffici di via Giulia a Roma, sede della Direzione nazionale antimafia, uno dopo l’altro vengono analizzati i risultati investigativi: sembrano convincere gli inquirenti che quelle ribellioni difficilissime da sedare non siano state solo la conseguenza delle misure restrittive prese per contrastare la pandemia. Anche perché non si sono concentrate solo nei giorni tra il 7 e il 9 marzo (data in cui è stato disposto il lockdown).

Ma incendi, danneggiamenti e occupazioni sono andati avanti fino al 20 aprile. E mentre le indagini interne disposte dal Dap forniscono i numeri del fenomeno, a partire dal carcere di Napoli, con 900 persone coinvolte (51 detenuti feriti, 52 poliziotti) fino a quello di Bologna, con 463 persone coinvolte (un detenuto morto, due poliziotti feriti); passando per gli istituti di pena di Modena (nove detenuti deceduti, 26 poliziotti feriti), Rieti (tre detenuti morti) e Foggia (440 rivoltosi, 60 evasi), quelle dell’Antimafia individuano i protagonisti e ricostruiscono i retroscena.

Fatta eccezione per il caso di Santa Maria Capua Vetere, dove sono finiti sotto accusa gli agenti della polizia penitenziaria (lo scorso giugno sono state emesse 52 misure cautelari), nel resto del Paese comincia a emergere in modo chiaro che i boss di Cosa nostra e quelli della ‘ndrangheta non hanno sostenuto le rivolte, appannaggio, invece, di camorristi ed esponenti delle organizzazioni mafiose locali.

A Roma, per esempio, sono già andati a processo in 46 per la sommossa scoppiata il 7 marzo 2020 partendo dal reparto G11. Dall’inchiesta, coordinata dal procuratore Michele Prestipino, è emerso il ruolo principale di quattro detenuti, indicati come i promotori che, dopo aver aggredito personale della polizia penitenziaria, erano riusciti a impadronirsi delle chiavi dei cancelli filtro e a fare uscire i reclusi degli altri reparti. Tra questi ci sarebbe Leandro Bennato, uno degli uomini più vicini ai boss della mala romana, gambizzato nel novembre 2019 e finito in carcere perché avrebbe fatto parte del giro di Diabolik, e Fabrizio Piscitelli, il leader degli Irriducibili della Lazio ucciso in un agguato al Parco degli Acquedotti. I detenuti siciliani e quelli calabresi, invece, durante i disordini pare siano rimasti composti nelle loro celle.

Come a Bologna, dove di reclusi a processo ne sono finiti 49 per la rivolta del 9 marzo. Le indagini coordinate dal pm Elena Caruso hanno identificato in otto detenuti gli istigatori. E anche in questo caso la matrice sembrerebbe essere un mix tra piccoli esponenti di consorterie locali e persone finite in prigione perché legati all’ala camorristica.

Altri due esempi eloquenti li riporta il giornalista Sergio Nazzaro nel suo Parallel contagion, scritto per il Global initiative against transnational organized crime, nel quale mette a confronto l’istituto di pena di Modena e quello di Reggio Emilia: «Città in cui è stato celebrato anche il più grande processo di ‘ndrangheta al Nord Aemilia» sottolinea. «Modena in fiamme perché ci sono i camorristi napoletani (anche se, poi, il procedimento giudiziario è finito in archivio ndr), a Reggio Emilia nulla perché ci sono i calabresi» spiega.

Anche a Foggia, carcere in mano alla nuova mafia locale, «che è camorra in fin dei conti», sostiene Nazzaro, la rivolta è culminata con «la fuga di massa di oltre 70 detenuti». La sua conclusione: «Sono sicuro che le mafie hanno guidato la rivolta, su questo non ci sono dubbi. Tutto organizzato con precisione. Appena sono cominciate le ribellioni, i parenti dei detenuti erano fuori, come se lo sapessero. Anzi lo sapevano». Davanti al carcere di Opera, a Milano, insieme ai parenti dei reclusi, si è accertato che c’era pure un gruppo di anarchici. Come a San Vittore, dove la polizia fu costretta perfino a caricarli.

Ma sarebbero casi isolati. Per Opera il procedimento si è chiuso con 12 condanne con rito abbreviato e cinque patteggiamenti. Le pene, fra 4 mesi e 2 anni e 6 mesi di reclusione. Per San Vittore dovranno affrontare il processo in nove. Mentre a Salerno, al centro dell’indagine coordinata dal procuratore Giuseppe Borrelli c’è il «papello», un documento consegnato la sera del 7 marzo dai detenuti che avevano messo a soqquadro il carcere di Fuorni. Oltre a reclamare tamponi per tutta la popolazione dell’istituto e la possibilità di contattare in videochiamata le famiglie per ovviare alla sospensione dei colloqui disposta per contenere il dilagare del virus, al punto 7 chiedevano di «sollecitare i tribunali a concedere pene alternative in modo» da consentire «a ogni ristretto di questo istituto di scontare la pena ai domiciliari per contrastare, prevenire o meglio curare l’emergenza coronavirus che sta invadendo il nostro sistema».

L’ultima inchiesta, che conferma l’orientamento criminale di chi ha fomentato la rivolta, è della Procura antimafia di Potenza. Il procuratore Francesco Curcio ha iscritto una quarantina di detenuti del carcere di alta sicurezza di Melfi sul registro degli indagati e ne ha arrestati 11, considerati registi e animatori della ribellione. Il 9 marzo 2020 sequestrarono per nove ore nelle celle agenti e personale sanitario. «Alcuni di loro» ha spiegato il magistrato «sono appartenenti a gruppi criminali campani e pugliesi».

Tra i protagonisti c’era, secondo l’accusa, Francesco Tizzano, uomo di vertice del cartello foggiano Moretti-Pellegrino-Lanza, fresco di condanna a 18 anni in un maxiprocesso. Ma anche Roberto Dello Russo di Terlizzi, finito dietro le sbarre per aver corrotto magistrati. Insieme a loro, esponenti della mafia lucana, quella che i magistrati un tempo chiamavano dei «basilischi»: Carlo Troia e Dorino Stefanutti. Anche qui la ‘ndrangheta si è tenuta sapientemente al di fuori.

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