Resta con me, i pallidi fantasmi del mare – La recensione
Il cinema “estremo” del regista islandese Baltasar Kormákur racconta la storia vera e allucinatoria di una ragazza sopravvissuta a 41 giorni di deriva
Quarantuno giorni di deriva. Su una barca a vela mezzo distrutta da una tempesta. E un compagno di viaggio ridotto più o meno come la barca, costole rotte e gamba frantumata. È la vera storia di Tami Oldham Ashcraft (Shailene Woodley), protagonista in Resta con me (uscita in sala 29 agosto, durata 96’) di una avventura di sopravvivenza piena di mare e di disperazione navigante verso un epilogo inatteso e rivelatore. Dirige Baltasar Kormákur, 52 enne islandese esploso al suo esordio nel 2000 con 101 Reykjavík e autore fino ad oggi di un cinema “estremo” nei moti e nei sentimenti, sostanze che esibisce anche qua, replicandole sul filo delle emozioni più intense: dominate, come tutto il film, dall’amore.
Come innamorarsi di uno skipper giramondo
Prima di tutto, dunque, una storia d’amore. Che nasce nel 1983 su un molo di Tahiti. Lei è Tami, lui Richard Sharp (Sam Claflin), skipper bello e giramondo che acciuffa subito il cuore della ragazza, anch’ella, del resto, incline alla peripezia marina e terrestre. Risultato: incominciano a scivolare insieme sull’acqua, spinti dalle vele della barca di lui, godendosi passioni e tramonti e ragionando sulle sfumature cromatiche di questi.
Smarrimento e solitudine dopo la tempesta
Ma l’acqua magica e avventurosa non tarda a diventare nemica quando sullo scafo s’abbattono onde alte come palazzi e spirano venti tragici: Tami si ritrova sottocoperta, immersa nei detriti, soprattutto sola. Nessuna traccia, sulle prime, del compagno, poi avvistato di lontano, aggrappato alla scialuppa di salvataggio alfine recuperato e fatto rinvenire sebbene malconcio e del tutto inutilizzabile nelle mansioni di bordo. Il resto è lotta di conservazione nella deriva che pare interminabile, con la morte in agguato e l’amore come unico sostegno.
Cifra affettiva e visionaria tra presente e passato
L’esito, visto che la vera Tami è riuscita a scrivere un libro - stesso titolo del film, editato in Italia da HarperCollins - raccontandovi gli eventi dieci anni dopo l’accaduto, è scontato. Meno scontata, nella felice rilettura cinematografica, è la cifra affettiva e visionaria che il racconto riesce ad esprimere nella continua alternanza del presente angosciante e del passato estatico e radioso, tempo reale e flashback mescolati fra tensione e struggimenti, disperazione e coraggio.
Dove il fenomeno allucinatorio della navigazione oceanica e solitaria prende il sopravvento in tutte le sue forme, anche le più intime, fino a materializzarsi: addirittura con l’apparizione fantàsmica di una nave avvolta dalle nebbie notturne che nella sua maestosità – qua però in tono minaccioso - sembra evocare quella del Rex nell’Amarcord felliniano. E non è la sola proiezione immaginaria della mente dell’eroina Tami Oldham Ashcraft.