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Domani Conte «a processo» per gli 007. Ma pure il dem Pittella deve dare spiegazioni

Domani Conte «a processo»
per gli 007. Ma pure il dem  Pittella deve dare spiegazioni

  • Domani Giuseppe Conte risponderà al Copasir. Ma si complica anche la posizione del senatore dem, che è stato nel cda della Link. Altro che «conoscente», il maltese era il suo capo.
  • Le motivazioni della condanna all’ex capo di Confindustria Sicilia ricostruiscono i suoi legami con l’Aisi. Sotto osservazione le bugie dei renziani Mario Parente e Valerio Blengini.

Lo speciale contiene due articoli


Da «caro amico» a semplice conoscente tra «migliaia di persone». Sono bastati solo due anni a Gianni Pittella per scaricare Joseph Mifsud, il misterioso, e ormai irreperibile, professore maltese al centro dello scandalo internazionale Spygate. Un caso diventato ingombrante anche per il governo giallorosso e che costringerà il premier, Giuseppe Conte, a rispondere domani alle domande del Copasir, in particolar e sugli incontri del ministro americano della Giustizia, William Barr, con i vertici degli 007 italiani nell’ambito del cosiddetto Russiagate.

Ma restando, per il momento, ai rapporti tra l’ex vicepresidente del Parlamento europeo e Mifsud qualcosa non torna. Solo a novembre 2017, infatti, l’attuale senatore dem raccontava a Repubblica che tra lui e Mifsud era nato un «rapporto di amicizia tale che abbiamo partecipato a diversi eventi insieme». Più avanti Pittella tracciava un ritratto affettuoso dell’accademico maltese, «persona cordiale e intelligente, uno dei più grandi uomini di relazioni pubbliche mai conosciuto, un uomo di alto profilo», grazie al quale aveva potuto partecipare a «incontri molto interessanti sul Mediterraneo».

Ma ora che il caso Spygate minaccia di creare sconquassi, i toni si fanno molto più freddi. Un paio di settimane fa, intervistato dal Corriere, Pittella ha dichiarato che sì, conosceva Mifsud, ma stavolta questi viene presentato semplicemente come un personaggio che «aveva contatti con centinaia di università e mi invitava a diversi convegni, ma mai più di questo». Capito bene? «Mai più di questo». Eppure è sufficiente consultare i motori di ricerca per rendersi conto che il rapporto tra i due in realtà va ben oltre.

Per prima cosa, come si può facilmente verificare dalla lettura del suo cv, Pittella è stato visiting professor alla London academy of diplomacy (Lad), la scuola di relazioni internazionali affiliata alla university of East Anglia ai tempi in cui era direttore proprio Joseph Mifsud. L’informazione è verificabile anche dalla dichiarazione di interessi finanziari presentata a giugno 2014 da Pittella al Parlamento europeo, nel quale viene riportato l’incarico (senza compenso). Tecnicamente, si può dire che in questa circostanza «the Professor» – come lo chiama il procuratore speciale Robert Mueller, autore del celebre rapporto sulle ingerenze russe nella campagna presidenziale del 2016 – fosse il «capo» di Pittella. Difficile dunque pensare che tra i due non esistesse già all’epoca uno scambio professionale e culturale di una certa rilevanza. Se andiamo più avanti nel tempo, il nome di Pittella figura anche nella brochure della scuola relativa all’anno accademico 2015-16, quando il Lad è passato ormai sotto la gestione dell’università di Stirling. Da segnalare anche i nomi di Claire Smith, diplomatico britannico ed ex membro del Join intellicente committee (organo responsabile della supervisione dei servizi segreti della Corona), e di Stephan Roh, facoltoso avvocato svizzero e legale del professore maltese.

Notevoli anche i legami di Pittella con la Link, l’ateneo romano nel quale lo stesso Mifsud incontrò George Papadopoulos, membro dello staff di Donald Trump, millantando contatti con importanti politici russi e la possibilità di fornirgli migliaia di messaggi di posta elettronica compromettenti sul conto di Hillary Clinton.

Sempre stando alle dichiarazioni di interessi finanziari , nel 2012 Pittella dichiarava di essere membro (anche stavolta senza compenso) del consiglio di amministrazione della fondazione Link campus university. Proficua poi la produzione letteraria per conto della Eurilink university press, casa editrice della Link. Non si può fare a meno di menzionare la prefazione scritta a quattro mani con il «conoscente» Joseph Mifsud al libro Managing a small business in the contemporary environment, del 2012. Ma in tempi più recenti Pittella scrive altri due testi: uno è Exit. Europa, Mediterraneo, Mezzogiorno, riforme, del 2016, mentre l’altro si intitola La notte dell’Europa. Perché la Grecia deve restare nell’euro, dato alle stampe un anno prima. E proprio quest’ultimo libro è stato oggetto, il 24 ottobre 2015, di una presentazione nella biblioteca della Link di via Nomentana alla presenza di ospiti di tutto rispetto: oltre all’ambasciatore greco, figuravano tra i relatori l’attuale presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, il suo predecessore, Antonio Tajani, e l’immancabile patron dell’ateneo, Vincenzo Scotti. Sempre nel 2015, ma a settembre, Pittella partecipa al convegno «Da Ground Zero al Giubileo: l’evoluzione dell’homeland security in risposta alla minaccia terroristica», che vede tra i relatori Scotti, Marco Mayer (direttore del Master in Intelligence alla Link) e lo stesso Mifsud.

Pure Domenico Pittella, figlio di Gianni, finisce per insegnare alla Link, dove nel 2016 è docente di diritto dei consumatori. Nulla di illegale, per carità, certo colpisce che alla fine i destini di famiglia si incrocino proprio all’ombra degli alberi di Casale San Pio.

Sarà proprio Gianni Pittella a presentare nel 2011 Joseph Mifsud a Simona Mangiante, moglie di George Papadopoulos, come lei stessa ha da poco raccontato a Repubblica. Più tardi nel 2016, sempre Pittella suggerì alla Mangiante di rivolgersi a Mifsud, appena nominato direttore dell’oscuro London center for international law and practice (Lcilp). «Mi prese col ruolo di direttrice delle relazioni diplomatiche», spiega la moglie di Papadopoulos, «in realtà era interessato a dossier confidenziali di cui mi ero occupata a Bruxelles, e che mai gli ho rivelato».

Tutti aspetti sui quali si sta concentrando l’indagine condotta dal procuratore John Duhram, e che secondo indiscrezioni riportate dall’emittente Nbc News potrebbe trasformarsi in un’indagine penale con un conseguente aumento delle risorse impiegate e una decisa accelerazione in termini di tempi.

Il giudice del caso Montante accusa gli 007 nominati dal Bullo: «Hanno mentito»


Ai tempi in cui il Rottamatore era premier i vertici dell’Aisi, il servizio segreto che si occupa della minaccia interna, si sono arrampicati sugli specchi per confondere i giudici sul sistema di protezione e sulla rete di relazioni su cui poteva contare Antonello Montante, il professionista dell’antimafia ed ex numero uno di Confindustria in Sicilia, condannato con rito abbreviato a 14 anni di carcere il 10 maggio scorso. L’ipotesi è ora ricostruita in una sentenza di 1.700 pagine, che contiene anche i nomi delle barbe finte raccomandate da Montante. L’ha trasmessa alla Procura il gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, con la specifica richiesta di approfondire le dichiarazioni di Mario Parente, messo dal Bullo a capo dell’Aisi, e del suo vice Valerio Blengini (per circa un decennio capocentro dei nostri 007 a Firenze e promosso da Renzi mentre era a Palazzo Chigi) che, sentenzia il giudice, «mentono sapendo di mentire».

Al centro del caso c’è un capo reparto dell’Aisi, Andrea Cavacece, imputato nell’altro troncone del processo Montante che è attualmente in corso con rito ordinario davanti ai giudici del tribunale. Lo 007 è accusato di aver girato all’ex direttore dell’Aisi Arturo Esposito notizie sull’indagine a carico del colonnello Giuseppe D’Agata, ex capo della Dia di Palermo poi passato ai servizi segreti. Un investigatore che, dopo aver indagato sull’ipotizzata trattativa Stato-mafia, era diventato fedelissimo di Montante. Ed è solo uno degli episodi che, per dirla come il giudice, ha reso «particolarmente impervia l’attività di investigazione, a causa del trasudamento di notizie segrete che, in maniera inizialmente inspiegabile, riuscivano a raggiungere i diretti interessati».

Ma è impervia anche la ricostruzione di quelle fughe di notizie. Per provarci il giudice torna indietro al 2015, quando Blengini fu costretto a spiegare ai magistrati che «durante un incontro con personale dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia di Stato, ndr) per gli auguri di Natale, a un collaboratore dell’Aisi erano state chieste informazioni su D’Agata, tanto da indurlo a ritenere che vi fosse un’attività investigativa sul colonnello». A quel punto Blengini chiese chiarimenti al questore di Caltanissetta, Bruno Megale: «Gli chiesi conferma se avesse notizia di un’indagine su D’Agata perché bisognava valutare l’opportunità di trasferirlo in Sicilia». Ma il questore chiuse ogni discussione. E Blengini confermò alle toghe: «Si trincerò in un silenzio imbarazzato, mi rappresentò solo l’inopportunità di trasferire D’Agata in Sicilia». Blengini, «attivato per esplicita direttiva del generale Esposito», arrivò già troppo informato e forse proprio per questo si beccò un «niet». In più finì in una relazione di servizio con cui Megale mise agli atti la vicenda. A Esposito subentrò Parente. E davanti ai giudici ha retto il gioco del suo vice, precisando che la notizia raccolta alla cena di Natale era «indeterminata». Ma è su quel termine che scivola Parente. Secondo il giudice, «se, come sostenuto dai due appartenenti ai servizi segreti, l’informazione loro pervenuta sulla possibile indagine sul conto di D’Agata fosse stata veramente così generica, non si comprende il senso dell’iniziativa esplorativa condotta presso la squadra mobile nissena, in quanto, in assenza di dettagli sull’oggetto dell’indagine, non era neppure possibile supporre la commissione di reati funzionali da parte di D’Agata, tali da agganciare l’indagine, presunta, ai luoghi di pregresso servizio dello stesso».

Perché andare proprio a Caltanissetta a cercare notizie? Secondo il giudice «nell’articolazione dichiarativa di Blengini e Parente si assiste allo scollamento logico tra l’azione compiuta e la giustificazione addotta». Il giudice un’idea se l’è fatta. E la esplicita così: «È convincimento di questo giudice che Cavacece avesse assecondato il direttore Esposito, al quale D’Agata stava particolarmente a cuore, nel proposito di preservare quest’ultimo dall’indagine, e che, una volta scoperto tale retroscena grazie alla relazione del questore Megale, non rimaneva altro che imbastire una pseudo giustificazione istituzionale, nell’ambito di un patto scellerato al quale potrebbe aver aderito, lo si afferma con grande desolazione, anche l’attuale direttore dell’Aisi, il generale Mario Parente».

Ma è anche sugli «addentellati di cui godeva Montante» che si concentra il giudice. Oltre agli «ottimi rapporti di natura personale con il direttore Esposito», Montante aveva già legato con il suo predecessore, l’ex vicecomandante dell’Arma e poi capo dell’Aisi Giorgio Piccirillo. Pranzi e cene, incontri all’hotel Bernini di Roma, sono documentati nell’agenda di Montante. Così come raccomandazioni per progressioni di carriera con tanto di schede da inviare ai politici di riferimento. E nell’orbita di Antonello da Serradifalco, re dell’antimafia, era finito un’altro 007, Gianfranco Melaragni, ex dirigente superiore della polizia di Stato ora in pensione che, nel periodo degli incontri segnati sull’agenda di Montante, percepiva redditi dalla presidenza del Consiglio dei ministri, il che testimonia, afferma il giudice, che in quel momento Melaragni apparteneva ai servizi di informazione e sicurezza. Così come Mario Blasco, stesso curriculum di Melaragni e stessa posizione sull’agenda di Montante, l’imprenditore attorno al quale, è scritto in sentenza, «si sarebbe eretta una barricata di protezione che gli avrebbe permesso di essere allertato, tempestivamente, dell’esistenza dell’indagine». Una barricata con al centro anche l’Aisi.

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