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Assassino, ti conosco

Assassino, ti conosco

Come Eravamo

Da Panorama del 19 aprile 1992

I delitti si dividono in due categorie.

La prima contempla crimini folli, privi di meditazione (pre o post), affidati a un’improvvisazione che nulla spartisce con la logica. È possibile che questa delittuosità che scaturisce dal raptus, dalla caduta dell’intento razionale, venga aiutata dalla combinazione del caso, dando vita a un rebus non risolvibile.

La seconda categoria contempla invece crimini che, anche quando restano misteriosi, rivelano comunque i sintomi di una logica, per quanto perversa: l’assassino segue l’ istinto ancestrale che lo porta in qualche misura a costruire il delitto, a cautelarsi.

Il giallo di via Poma è un maledetto imbroglio perché caso raro rientra, nel suo sviluppo, in entrambe le categorie. Per metà si manifesta frutto di follia omicida; per metà si delinea organizzato, avvolto da una cura estrema per tutelare l’assassino. Non vi è dubbio, perciò, che ad agire siano state più persone: lo psicopatico e i suoi protettori. Questo avrebbe dovuto, fin dall’ inizio, spianare la strada delle indagini. La turpe rappresentazione si compone dunque di due atti.

PRIMO ATTO

È in azione l’uccisore. Il suo identikit? Si tratta di un uomo, alto, vigoroso, presumibilmente giovane, affetto da violente turbe sessuali, le quali non esplodono mai in un solo caso, ma devono, per forza di cose, aver dato segni in precedenza. Solo un tipo del genere avrebbe potuto esercitare una forza di penetrazione che ha portato a una profondità di dodici centimetri i 29 fendenti inferti, nel corpo della povera Simonetta, con un punteruolo (o tagliacarte) manovrato dall’ alto al basso punto importante! in una successione rapida dov’è leggibile un rituale sadico, una sorta di “scrittura” che si è impressa dalla zona toracica al pube. Secondo i criminologi, questo è l’alfabeto esemplare con cui “scrive” il suo delitto lo psicopatico che è affetto da impotenza. Che c’entrava dunque, con l’esecuzione materiale del crimine, Pietrino Vanacore, che è padre e, fino a prova contraria, non ha mai dato segni di uno squilibrio che, nel genere, è sempre terrificante? Dall’indagine che si era arenata in varie paludi, emerge ora il nome di Federico Valle, giovane nipote del novantenne architetto Cesare Valle, che nello stabile insanguinato abita da un pezzo e fra quelle mura è quasi un’istituzione. Lo sblocco della macchina poliziesca è venuto dalle affermazioni del supertestimone di turno, presentato come un amico di famiglia dei Valle (ma il padre di Federico Valle ha negato questa amicizia), un signore che ha avuto guai con la giustizia per truffa e bancarotta fraudolenta. Egli avrebbe “percepito” (sic!) brani di conversazione, sensazioni, comportamenti. D’accordo, esistono anche i rabdomanti del crimine, il che non elimina il terrore che un innocente possa di nuovo venire sbranato sul tavolo chirurgico dei sospetti. Gli investigatori dovranno andarci con mille piedi di piombo, rispondendo subito, stavolta, alla domanda: il giovane Valle ha manifestato, nella sua vita, sintomi di psicopatia sessuale? Se sì, il cerchio potrebbe stringersi. Se no, attenti all’ abbaglio. Perché qui abbiamo a che fare con un assassinio sadico, ma di quelli da manuale, e basta leggere qualsiasi trattato: il punteruolo (o tagliacarte) simbolo fallico per eccellenza, sostituto del pene che, nella pratica reale, non è in grado di compiere l’ aggressione erotizzata, ecc. Si legge nei manuali: “Delitto sadico è considerato in particolare quello nel corso del quale sono state inferte ferite alle parti genitali della vittima, dopo che sono stati praticati squarci nel corpo… L’ assassino non viene mai dal nulla: ha sempre rivelato, in molteplici casi, il suo sadismo”. Per l’ appunto.

SECONDO ATTO

Entrano in scena i favoreggiatori; meglio ancora: i protettori. La meccanica ha avuto la sua esecuzione: lo psicopatico ha costretto Simonetta a denudarsi, forse a compiere gesti di autodegradazione, come succede spesso in casi del genere (vedi l’ordine, per esempio, di appaiare con pignoleria le scarpe). Ha quindi infierito con una forza tale da lasciare sui fianchi della vittima profonde ecchimosi procurate dalla stretta delle sue ginocchia. Ora, il delirio è passato, il sangue lo inonda, come inonda il pavimento. Si riaffaccia la lucidità e il mostro chiede aiuto. A chi? A qualcuno, ovvio, facilmente raggiungibile. Ossia a qualcuno che abita nel palazzo. Altre ipotesi sono assurde, a meno di non credere alla presenza di complici nell’ appartamento sede dell’ Associazione italiana degli alberghi della gioventù. Il che è da escludere: quel tipo di assassino è una regola agisce sempre da solo, perché il delitto gli procura, insieme a un’ indicibile eccitazione, anche un’ indicibile vergogna. Dunque, in aiuto dello psicopatico intervengono persone che hanno cura di lavare il pavimento, di sciacquare e strizzare lo straccio; una cura che è stata definita “da professionista”. Vanacore e sua moglie, che di pulizie del genere fanno addirittura mestiere? Grande ingenuità, nel caso, non pensare che proprio un simile “marchio di pulizia” avrebbe giocato a loro sfavore. A meno che l’ intento di far sparire il cadavere, e ogni altra traccia, col favore delle tenebre, non abbia forzato la mano, annebbiate le menti. Ipotesi, ipotesi… Ma, di nuovo, c’è una domanda che s’impone con una sua certezza: chi poteva nutrire tanto amore per l’ assassino da impiegare tutta la propria lucida ragione, tutta la propria ansia connivente, per toglierlo dai guai? Perché quello stracciò è stato usato con un amore viscerale, oscuro e ancestrale come l’ opposta spinta omicida? Ecco il punto. Credo che gli investigatori debbano partire dall’ atto secondo della macabra rappresentazione, e proprio dalla parola che più stride, estranea, vilipesa, paradossale, in tanto scempio: l’ amore. E’ questa parola che rende la difficile equazione risolvibile.

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