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ANSA/ANGELO CARCONI
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Tutte le grandi incompiute urbanistiche della giunta Raggi

Dalle Torri di Ligini all'Eur all'ex caserma del Forte Trionfale, fino al blocco dell'edilizia agevolata: le inadempienze non riguardano solo lo Stadio

Le polemiche sullo stadio e la selva di accuse fra la sindaca Virginia Raggi e il suo ex assessore all’urbanistica, l’architetto Paolo Berdini, rischiano di oscurare una domanda fondamentale: che cosa ne è stato, finché sindaca e assessore sono andati d’amore e d’accordo, delle grandi questioni urbanistiche di Roma Capitale?

La squadra messa insieme dalla Raggi ha ricevuto in eredità dalle amministrazioni precedenti ferite che sanguinano da decenni, che sarebbe assurdo imputare a chi governa la città da meno di un anno. Tuttavia per alcune di queste “incompiute” erano state almeno impostate soluzioni che aspettavano di essere portate avanti, magari con gli aggiustamenti suggeriti dalla sensibilità dei nuovi amministratori.

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Invece, niente. Anzi, si vedono addirittura passi indietro. «Il risultato di questi primi 8 mesi di governo della città da parte dei 5 Stelle» dice a Panorama.itGiovanni Caudo, architetto, ex assessore all’Urbanistica della giunta di Ignazio Marino (l’ultima prima dell’intermezzo del commissario straordinario Paolo Tronca) «è un misto di improvvisazione, scarsa attitudine ad approfondire i dossier e demagogia. Molte cose già avviate sono state fermate».

Tutti sanno che i predecessori hanno spesso da ridire sull’operato dei successori ma, anche al netto dell’inevitabile rivalità professionale e politica fra i due architetti, l’affermazione di Caudo appare basata sui fatti. Vedremo se da parte della giunta Raggi verranno repliche o approfondimenti. Nel frattempo, questo è lo stato dell’arte dei dossier urbanistici più caldi della Capitale, lasciando da parte ovviamente la questione dello stadio della Roma, le cui sorti si decidono in queste ore, e la gigantesca incognita della Metro C, dipendente più dall’assessorato ai Trasporti che dall’Urbanistica.

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Le Torri di Ligini all’Eur
I tre grattaceli che si vedono oggi in forma di scheletri subito prima del laghetto dell’Eur (sulla sinistra venendo da Roma) sono stati progettati all’inizio degli anni ‘60 dall’architetto Cesare Ligini per il ministero delle Finanze. Alla fine deli anni ’80 furono abbandonati e nei primi anni Duemila stavano per essere rasi al suolo per far posto a un progetto di Renzo Piano, poi stroncato dal crollo dei valori immobiliari. All’epoca erano già così malmessi da essersi guadagnati il soprannome “Beirut” ma, in un soprassalto di memoria storica, ci si ricordò che rappresentano un raro esempio di architettura in ferro e vetro nel mare di marmo bianco dell’Eur, da cui l’idea di riportarli in vita. Il progetto sembrò concretizzarsi nel 2015 grazie alla scelta di Tim di trasferirvi il proprio quartier generale, seguita dalla creazione di un’apposita società con la Cassa depositi e prestiti, che presentò un ambizioso progetto di restauro accolto giustamente a braccia aperte dal Comune.

Prima che la macchina si mettesse in moto, tuttavia, gli uffici del Campidoglio ebbero un altro risveglio di memoria, riguardante stavolta i 24 milioni di euro che la convenzione stipulata a suo tempo con la vecchia proprietà (quella del progetto di Piano) prevedeva per oneri di edificazione e cambio di destinazione d’uso. Quegli oneri sono oggi di esigibilità assai dubbia, perché non si tratta più di abbattere e ricostruire, ma solo di restaurare. Inoltre non è neppure previsto il cambio di destinazione da uffici ad abitazioni. Ciononostante, che cosa fanno Berdini e la giunta Raggi appena insediati? Prima di capire se c’è davvero la possibilità di ottenere i 24 milioni dalla società di Tim e Cdp denunciano il “regalo” della vecchia giunta ai costruttori e ritirano l’autorizzazione al restauro.

Non avendo il Comune un euro né un’idea da mettere in campo per la riqualificazione di quella parte dell’Eur è un atto di puro autolesionismo, tanto più che pochi mesi prima è cambiato l’amministratore delegato di Tim. Al posto di Marco Patuano, che aveva sostenuto con forza il progetto, c’è ora Flavio Cattaneo, che non ne vuole sapere. La modifica degli accordi offre su un piatto d’argento la possibilità di una marcia indietro senza penali da pagare, e il nuovo ad non se lo fa ripetere due volte: Tim individua una sede meno costosa e le torri restano come sono. Il danno è raddoppiato dal fatto che i ruderi si trovano proprio di fronte all’albergo di superlusso costruito accanto alla celebratissima Nuvola di Massimiliano Fuksas. Finché si affaccerà su “Beirut” sarà ben difficile trovare un compratore.

Il progetto dell'ex Fiera di Roma

L’ex Fiera di Roma sulla via Cristoforo Colombo è stata abbandonata nel 2007, dopo aver onorevolmente servito per quasi mezzo secolo come sede delle grandi esposizioni della città. Il motivo dell’addio è la nascita della nuova Fiera sulla via Portuense, fra Roma e Fiumicino, operazione che si rivela subito sciagurata, come testimoniano le difficoltà finanziarie della società Investimenti spa, costituita appositamente da Camera di commercio, Comune di Roma e Regione Lazio.

Ma più del rischio di fallimento di Investimenti spa, che pure incombe, è importante la destinazione di quei 7,3 ettari abbandonati da ormai dieci anni in una zona periferica ma non troppo, che avrebbe il sacrosanto diritto a una riqualificazione. Sventuratamente le due cose si intrecciano, perché per pagare i debiti con Unicredit generati dalla nuova Fiera, Investimenti ha assoluto bisogno di vendere i terreni della vecchia, e questo richiede che il Comune stabilisca quanti metri cubi ci si possono costruire sopra, con il corollario che quanto maggiore sarà questo numero tanto più alto sarà il valore dello spazio da vendere.

Oggi su quell’area ci sono solo 44 mila cubi edificati, ma è una cifra che significa poco, essendo il terreno occupato solo dai vecchi padiglioni espositivi. Ben diversa è l’occupazione di spazio necessaria a un quartiere con case, uffici, negozi e servizi pubblici. Il primo progetto prevede 300 mila metri, che vengono poi ridotti a 216 mila. Quando si apre la doverosa consultazione pubblica, arrivano osservazioni critiche solo da due associazioni di cittadini, che invocano il limite dei 44 mila metri attuali. Il Comune respinge le obiezioni e si prepara a mandare la delibera alla Regione Lazio per dare corso al progetto, proprio nei giorni in cui cade la Giunta Marino.

Arriva l’accoppiata Raggi-Berdini e che cosa fa? Denuncia la “colata di cemento” in arrivo per colpa delle giunte precedenti, annulla la vecchia delibera e accoglie in pieno delle obiezioni delle due associazioni, fissando il limite edificabile ai 44 mila metri cubi occupati da ciò che resta della vecchia Fiera. Risultato: crollo del valore dei terreni, nessun compratore all’orizzonte, rischio fallimento per Investimenti Spa (di cui il Comune detiene il 21,8 per cento) e naturalmente ex Fiera ancora abbandonata. La ciliegina sulla torta è che la delibera di Berdini approvata sei mesi fa non è ancora neppure arrivata in Regione.

 Forte Trionfale

Il Forte Trionfale, nel quartiere Monte Mario, un complesso di fine ‘800 utilizzato come caserma dall’esercito italiano fin dagli anni ’20 e chiuso dal 2014 è una delle “incompiute” più recenti di Roma Capitale. Il progetto presentato dalla giunta Marino prevedeva l’uso della palazzina degli anni ’60 che si trova all’interno del Forte come sede del XIV Municipio (che ora spende mezzo milione l’anno di affitto per una sede privata) e soprattutto l’apertura al pubblico dell’area verde circostante di 7 ettari. Per indennizzare il ministero della Difesa, proprietario dell’area dismessa, è stata progettata l’edificazione di una fascia di mezzo ettaro ai margini del parco, con la destinazione di residenze private.

Quando si insedia la giunta del Movimento 5 Stelle va in scena ancora una volta il copione già visto negli altri casi. Con il solito spauracchio della “colata di cemento”, l’assessore Berdini e il Municipio (a guida grillina, come la giunta comunale) bloccano il progetto e ricominciano tutto daccapo: le abitazioni spariscono dalla fascia ai margini del verde e vengono progettate nella palazzina già destinata a Municipio. Meno metri cubi edificabili, dunque, ma con due conseguenze paradossali: la prima è che il XIV Municipio dovrà continuare a pagare centinaia di migliaia di euro di affitto a un privato e la seconda, più grave, è che l’area già destinata a parco non potrà essere più a disposizione dei cittadini ma finirà al servizio delle poche abitazioni private. Cosa che scatena naturalmente le proteste degli abitanti del quartiere. Il peggio è che questo progetto avrebbe dovuto fare da apripista per il riutilizzo di diverse caserme dismesse o da dismettere nella capitale (oltre al Forte Trionfale, quelle del Trullo, di Pietralata e di Viale Angelico). Il relativo protocollo fra Comune e Ministero della Difesa è scaduto ad agosto 2016 e non è stato rinnovato.

Il blocco dell'edilizia agevolata

Le case di edilizia agevolata prevedono uno sconto agli acquirenti a fronte dei contributi (molte migliaia di euro ad abitazione) concessi ai costruttori dalla Regione e varie agevolazioni da parte del Comune. Purtroppo a Roma è sempre stato molto praticato lo sport del “salto dello sconto”, nel senso che i costruttori specializzati, decine di imprese e cooperative, incamerano il contributo pubblico e poi dimenticano di girarlo a chi acquista. E’ una delle perle della “mala amministrazione” storica della città, della politica ma anche degli uffici tecnici, visto che per anni nessuno ci ha trovato niente da obiettare. Qualcosa si muove finalmente nel 2012 con un’indagine della Guardia di Finanza. Dopo di allora gli inquilini truffati cominciano a segnalare il comportamento delle ditte inadempienti. Nel 2013 il Comune manda lettere a 141 imprese per ribadire l’obbligo di scontare il contributo, che anche il Tar conferma dopo il ricorso di alcuni costruttori.

La faccenda si proietta nel futuro perché la legge prevede che, per poter rivendere l’alloggio a prezzi di mercato, chi la ha acquistata deve restituire lo sconto al soggetto pubblico. Senza questa procedura, chiamata “affrancazione” l’alloggio non si può vendere. Ebbene, di 1.600 vendite che attendono l’”affrancazione” in otto mesi di giunta Raggi ne sono state evase solo poche decine. Quanto alla delibera preparata dalla giunta precedente con le sanzioni per le imprese che non si fossero adeguate a praticare lo sconto previsto per legge, se ne sono semplicemente perse le tracce.

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Stefano Caviglia