Tutta la verità sull'inchiesta di Yara Gambirasio
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Tutta la verità sull'inchiesta di Yara Gambirasio

Il fermo di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto killer della ragazzina di Brembate, è l'anello finale di un lungo e faticoso lavoro degli inquirenti: tutti i particolari di questa storica inchiesta raccontati dal cronista di Panorama che ha seguito il caso

L’assassino di Yara Gambirasio da oggi non ha più il nome in codice Ignoto uno. Sulla sua carta di identità ci sarebbe scritto Giuseppe Bossetti, 44 anni, padre di tre figli, un muratore incensurato di Clusone ma vivrebbe a Mapello, poco distante da Brembate di Sopra, il paese dal quale Yara è scomparsa il 26 novembre del 2010 per essere ritrovata senza vita tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti è stato arrestato dai carabinieri del Ros e incastrato grazie al profilo del dna ricavato sui leggings della tredicenne.

Alla fine hanno avuto ragione loro: carabinieri, polizia, procura della repubblica di Bergamo. Sono partiti da nulla: nessuna segnalazione, una testimonianza, un indizio, un’immagine ripresa da una telecamera, una soffiata anonima, nulla di nulla. L’hanno cercata invano per tre mesi, fino a quando un uomo ha trovato il corpo, abbandonato in un campo di Chignolo d’Isola, poco distante da Brembate. Ci si è chiesti: come è possibile che nessuno l’abbia notata durante le ricerche? La risposta: c’era la neve, le sterpaglie erano alte più di un metro, anche se quando sono arrivate le telecamere delle televisioni il campo era già stato ripulito. A quel punto, gli investigatori hanno cercato tutte le telecamere fisse dei capannoni nel tratto di strada tra il luogo del ritrovamento e quello della scomparsa. Ce n’erano tre, purtroppo girate verso l’interno: nessuna immagine ripresa sulla strada. Anche le celle telefoniche non hanno fornito nessun aiuto.

Insomma, buio pesto. La classica indagine nella quale un investigatore sa che prenderà pesci in faccia. Infatti le critiche ci sono state, anche feroci.  Ma gli inquirenti non si sono mai arresi, si sono aggrappati all’unica traccia lasciata dall’assassino e sono arrivati a stabilire con certezza scientifica che era figlio illeggittimo di Giuseppe Gerinoni, autista di pullman di Gorno, alta Val del Riso, morto nel 1999.

Un ruolo fondamentale lo ha avuto il pubblico ministero Letizia Ruggeri: derisa, sbeffeggiata, è andata avanti sapendo che prima o poi avrebbe avuto ragione. Caparbia fino alla cocciutaggine (è cintura nera terzo dan di karatè e campionessa di sci), ha avuto coraggio con il marocchino Mohamed Fikri:  lo ha bloccato in mare, interrogato, ritenuto da subito estraneo e con grande onestà non lo ha trasformato in capro espiatorio.

Si è invece concentrata sull’unica traccia lasciate e grazie alle analisi del Ris dei Carabinieri è risalita fino al profilo genetico dell’assassino.

I PUNTI FERMI DELL'INDAGINE
Mentre tutti disegnavano profili campati in aria, gli investigatori hanno sempre avuto la barra dritta su alcuni punti fermi.

Primo: l’assassino, probabilmente, non voleva uccidere Yara. I segni di lama sul corpo della piccola ginnasta erano superficiali, confusi e non espressione di una chiara volontà di commettere un omicidio. Se mai avesse voluto, non è stato in grado di farlo.

Secondo: l’assassino non ha trascinato la ragazza nel campo per nasconderla, ma l’ha lasciata lì dopo che la situazione gli è sfuggita di mano. Yara è arrivata con i suoi piedi nel punto in cui è stata ritrovata. Fosse stata più vicina al bordo della strada qualcuno l’avrebbe vista. Invece è morta di freddo. Per mano di un uomo, ritenuto dagli inquirenti un conoscente di Yara: nei minuti esatti in cui la ragazza spariva nel nulla, suo papà passava per quella stessa strada in macchina con il figlio più piccolo. Non ha visto niente, come niente hanno visto gli abitanti dell’isolato. Neppure un urlo: Yara avrebbe seguito spontaneamente l’uomo che poi l’ha lasciata agonizzante sul campo.

Questi erano i punti sulla linea dalla quale gli investigatori non si sono mai allontanati, anche quando le critiche erano pesanti e i termini per le indagini preliminari scadevano. Chi in questi anni ha avuto modo di parlare con loro ha sempre avuto la certezza che lo avrebbero preso: era scritto nei loro occhi, perché, dicevano, «Yara è figlia di tutti noi: l'assassino non può farla franca».

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Carmelo Abbate