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(Ansa)
Salute

Domande scomode sul Covid-19 - Parte seconda

di Francesco Avanzini

All'inizio dell'anno II d.c. (ovvero dopo coronavirus, come grottescamente e simbolicamente un columnist del New York Times ha definito l'attuale disgraziata epoca sembra opportuno stilare una piccola, riassuntiva, guida per tentare di farsi largo nella selva oscura della pandemia.

Dimmi che virus sei e ti dirò che fine farai

A proposito degli strumenti diagnostici utilizzati per rilevare la presenza del SARS-CoV-2 nella popolazione, sono molte le domande da porre cui non viene data una soddisfacente risposta. Ugualmente, molti sono i punti critici riguardanti l'effettuazione dei test diagnostici, considerando il fatto che dal risultato di questi test sono scaturite le misure restrittive a cui siamo sottoposti.

Iniziamo dai tamponi.

Attualmente, queste sono le metodiche diagnostiche più utilizzate, complessivamente denominate Dispositivi diagnostici in vitro per COVID-19.

-Test molecolare oro/nasofaringeo, il classico tampone, analizzato con la tecnica molecolare chiamata reverse transcription (rt)-Real Time PCR (l'acronimo in inglese sta per reazione a catena della polimerasi) che rileva il genoma (RNA) del virus SARS-CoV-2 nel campione biologico; è considerato il gold standard, cioè il test-chiave, in quanto altamente sensibile (rileva il numero massimo di positivi) e specifico (distingue veri da falsi positivi).

-Test rapido antigenico sul tampone oro/nasofaringeo.

-Test sierologico (indiretto) che rileva non direttamente il virus o sue parti ma gli anticorpi contro il virus.

-Test salivare

Il primo test, considerato la prova del nove per la dimostrazione del virus in un individuo, è quello attualmente raccomandato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dal Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle malattie (ECDC) per la diagnosi di SARS-CoV-2. L' analisi viene effettuata con la metodica Real-Time PCR. Questa consiste nell'impiego dell'enzima trascrittasi inversa che trasforma i filamenti di RNA in DNA complementari (cDNA); questi con il metodo della Real-Time PCR, vengono amplificati mediante un certo numero di cicli. L'amplificazione ha una crescita esponenziale per cui più si aumenta il numero di cicli e meno affidabile è l'esito. A questo proposito è necessario fare subito due osservazioni molto importanti. Prima osservazione: l'affidabilità, la veridicità del risultato del tampone dipende strettamente, oltre che dalla corretta tecnica di prelievo e di analisi, dal numero di cicli impiegati nell'analisi. C'è una tabella consultabile in rete che riporta il numero di cicli di circa venti test molecolari fra quelli utilizzati (circa cento): buona parte di questi supera i 34-35 cicli. In Germania hanno fissato un limite a 25 cicli, massimo 30 cicli; in Italia alcuni hanno dichiarato di avere superato i 45 cicli. Orbene è dimostrato che se si supera la soglia di 35 cicli, la probabilità che il risultato sia un falso positivo è del 97%. Il bello (o il tragico) della vicenda è che quasi nessun laboratorio dichiara il numero dei cicli applicati. A questo punto sorgono le domande: perché i laboratori non dichiarano il numero di cicli? C'è qualche disposizione che lo impedisce? E quindi, il numero di positivi al tampone è stato gonfiato? Il problema sorge dal momento che il numero di positivi (veri o presunti tali) è il parametro che decide tipo e durata delle misure restrittive.

Il problema della falsa positività è di tale rilevanza che il biochimico americano Kary Mullis, l'inventore del test RT-PCR, e insieme a lui tanti altri scienziati, negano la validità diagnostica dell'utilizzo dei tamponi che sono invece essenzialmente strumenti di ricerca, non di diagnosi. È chiaro che quando un clinico accerta la presenza dei sintomi tipici della malattia e si ha un risultato positivo al tampone la diagnosi è attendibile. C'è stato recentemente il caso della sentenza della Corte d'Appello portoghese che ha disposto per due turisti tedeschi l'inapplicabilità della quarantena, dato che i tamponi effettuati su di loro erano stati analizzati con più di 35 cicli, soglia alla quale, come si è detto, il tampone è considerato al 97% un falso positivo.

Seconda osservazione: fino all' aprile 2020 venivano ricercati nell'analisi del tampone tre geni del SARS-CoV-2: il gene E, che è comune ad altri coronavirus, il gene N (con le due varianti N1 e N2), con alta possibilità di cross-reattività, cioè di poterlo confondere con altri virus SARS, e infine il gene RdRP (talvolta invece si cerca il gene ORF1, con le sue varianti). Fino a tutto il mese di marzo 2020 per essere dichiarati positivi, occorreva la presenza nel tampone di tutti e tre i geni. Orbene dallo scorso aprile, invece, è stato deciso che basta un solo gene per considerare la persona positiva al Covid-19. Tra l'altro, se viene ricercato per esempio solo il gene N, che ha solo un nucleotide di differenza su 64, gene che inoltre è in comune anche in altri coronavirus, la possibilità che l'esame sia un falso positivo è notevole. Il professor Palù, docente emerito dell'Università di Padova ha recentemente affermato, in un'intervista al quotidiano La Verità del 24 ottobre scorso, che "se si usa un kit di tamponi che amplifica un solo gene dei tre, come si fa oggi per velocizzare, si amplifica la sensibilità con il rischio di falsi positivi".

Il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano, ha comunicato che la positività nei tamponi studiati emergeva solo dopo 34-38 cicli di amplificazione. Dato che l'esito di questi tamponi era "debolmente positivo", ciò significa che l'infettività del soggetto era da scarsa a nulla e, probabilmente, in base a quanto sopra riportato, tali test sarebbero da considerarsi negativi. Infine lo stesso Istituto Superiore di Sanità in un documento dal titolo "Dispositivi diagnostici in vitro per COVID-19", aggiornato al 23 maggio 2020, riporta in una tabella i tre parametri per la corretta identificazione dei positivi: la sensibilità del tampone, la sua specificità, e la prevalenza nella popolazione. Nel documento si legge che "un test molto sensibile nel rilevare il bersaglio di interesse ha maggiori probabilità di rilevare anche bersagli correlati ma distinti che non sono di interesse", e quindi risultare meno specifico. La prevalenza, il dato che rileva la presenza del virus nella popolazione, è un parametro difficile da inquadrare: "poco noto o del tutto ignoto" (riporta sempre il documento citato), perché la diffusione del virus dovrebbe essere colta sulla base di test, la cui attendibilità dipende appunto dalla prevalenza: in pratica un circolo vizioso. Affidando la ricerca del dato di prevalenza a test effettuati anche su asintomatici, un'indagine sulla prevalenza condotta dal Ministero della Salute, in collaborazione con l'Istat e la Croce Rossa, nel periodo 25 maggio – 15 luglio, colloca la prevalenza intorno al 2,4%, quando invece il dato sui sintomatici, quindi quello più sicuro, era attestato sotto l'1%. Come si vede le domande al riguardo sono più che legittime.

Poche parole sugli altri test.

Il secondo test, il rapido antigenico, si basa sull'individuazione di proteine di superficie specifiche del virus mediante l'utilizzo di anticorpi specifici. È vantaggioso perché appunto di rapida lettura, ma prevede comunque l'effettuazione del tampone e vanta una minor sensibilità e specificità rispetto a questo.

Il test sierologico o anticorpale è un metodo indiretto e misura il tipo e il grado della risposta anticorpale all'esposizione del virus, utile sia per indagini epidemiologiche che per monitorare l'andamento della immunità, per esempio per valutare la cosiddetta "immunità di gregge" ( ossia la diminuzione della circolazione del virus dovuta al fatto che i soggetti guariti e resi immuni dalla malattia contratta, rappresentano una protezione nei confronti del resto della popolazione).

C'è poi un ultimo test che è stato piuttosto snobbato: il test salivare. È un test semplice, non invasivo, può essere praticato anche dal soggetto esaminato e si basa sulla tecnica rRT-PCR, la stessa utilizzata per il tampone. Sono stati pubblicati vari lavori scientifici di gruppi numerosi di autori di varie discipline che dimostrano la più elevata sensibilità e riproducibilità di risultato di questo test rispetto al tampone molecolare. Sebbene questo rimanga la metodica di prima scelta, il test salivare può costituire un'alternativa per esaminare soggetti su larga scala e per monitorare l'andamento della malattia. Tra l'altro pare che possa essere molto utile nell'identificare i primi stadi della infezione nella fase subclinica e può essere utilizzato anche come test sierologico per determinare e titolare gli anticorpi anti-Covid. Per quali ragioni non viene utilizzato?

Le note bibliografiche relative agli articoli citati si possono consultare al seguente link: https://www.provitaefamiglia.it/media/userfiles/files/note-bibliografiche-covid19-francesco-avanzini.pdf

Per info: https://www.provitaefamiglia.it/

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Andrea Soglio