Prodi crolla, il Pd "smacchia" Bersani
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Prodi crolla, il Pd "smacchia" Bersani

Non sanno gestire un partito e vorrebbero comandare il paese - la resa dei conti nel Pd - lo speciale sul Quirinale - i 5 errori di Bersani -

Non era Grillo l’antipolitica, e non era neppure Berlusconi. L’antipolitica è questa. La guerra per bande del Partito democratico. Una vergogna senza fine, senza limiti. Senza nessuna giustificazione. Gente che avrebbe dovuto e voluto governarci. Questi sono i veri impresentabili.

Capibastone che si fanno gli sgambetti nel segreto dell’urna per rivalità personali, diversità genetiche, interessi anche economici contrastanti. Un bagno di sangue in nome del Potere, mentre il paese va alla malora perché la crisi morde ogni giorno di più e Unioncamere è arrivata a registrare nel primo trimestre di quest’anno un saldo di 31mila imprese in meno. E siamo approdati a non so più quale giorno dopo il voto (53?) senza un capo dello Stato e senza un governo. Con i democratici in balia delle loro piccole, miserevoli coliche intestine. Infognati in un tutti contro tutti che lascia sgomenti Berlusconi e lo stesso Grillo, il comico che si è rivelato molto più capace come leader e ben più raffinato politico di Pierluigi Bersani.

L’unico dato positivo della giornata, per dirla con un linguaggio da bar che è esattamente quanto merita la cronaca parlamentare della disfatta di Prodi, è che il Pd è costretto a riporre la mortadella nel frigo. I 395 voti che l’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione Europea ha racimolato sono infinitamente meno di quelli che sarebbero stati necessari come base per raccogliere eventualmente, domani, il consenso di una parte di Scelta civica e forse di qualche grillino.

È Matteo Renzi ad annunciare che la candidatura Prodi “non c’è più”. Massimo D’Alema, che in molti indicano come il regista occulto del siluramento di Prodi, anche solo per marcare la distanza ha fatto il visto per la Cina ed è geograficamente out. Giorgio Napolitano assiste pure lui allucinato. Alla sua veneranda età non pensava mai di dover assistere a una simile prova del suo ex partito. E il suo nome riemerge prepotente come l’unico che possa a colpi di machete scavare una via d’uscita nella giungla di Montecitorio.

Berlusconi e il Pdl, sostanzialmente in sintonia con la Lega, hanno fatto quello che a loro si richiedeva di fare. Mostrarsi disponibili per un governo di larghe intese, per cariche istituzionali condivise, addirittura per Bersani premier a condizione di un nome di garanzia (anche del Pd) al Quirinale.

Poi, dopo la parola violata su Franco Marini votato dal Pdl e affossato dai suoi, e la candidatura per acclamazione della personalità più divisiva di tutte, Romano Prodi, il Pdl e la Lega giustamente si sono tirati fuori, non hanno partecipato al voto al quarto scrutinio lasciando che lo spettacolo inqualificabile delle gladiatorie (altro che quirinarie e primarie) avesse come unici protagonisti la sinistra, il centro, i 5S. Così è stato.

Grillo, dal canto suo, ha avuto gioco facile a rimestare nelle beghe del Pd lanciando un’esca appetitosa, Stefano Rodotà, quasi uno sconosciuto per il volgo, ma un politico di lungo corso capace di esercitare un discreto richiamo della foresta su parte del Pd e sui vendoliani di Sel. Sulla sinistra della sinistra. Capisco: stiamo parlando di politichese, di consorterie, giochini, gnomi, strategie di palazzo e pugnali che volano. Non di cose reali. Di problemi della gente. Di governo. Di strategie europee. Di misure da prendere. Ma è questo che ci passa il convento. Anzi, la conventicola.

Il Pd non è più un soggetto unitario. È un agglomerato schizofrenico e litigioso di piccoli uomini. Ogni nuovo nome che viene bruciato, un altro drappello di fedelissimi si prepara a scatenare la sua vendetta sul prossimo candidato, si chiami Massimo D’Alema o Luciano Violante. Sicché la prospettiva (umiliante) di dover convergere sul candidato M5S, Rodotà, rischia anch’essa di fallire. Né è scontato che Napolitano accetti di restare al suo posto a 87 anni. Dovranno essere proprio tutti a chiederglielo. In un accorato, disperante appello corale. Oppure bisognerà far raffreddare gli animi, virare su un terreno neutro, su un nome non politico, comunque non troppo legato a consorterie di partito, rilucente di luce propria, vuoi per il ruolo vuoi per il passato. Magari una donna. Il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, o quello della Giustizia, Paola Severino. Oppure Emma Bonino. Sarebbero, chi più chi meno, tre ottime scelte.

Ma la saggezza non ha più dimora a Montecitorio. Specialmente nel partito, il Pd, che per dirla con Bersani è arrivato primo pur non avendo vinto. Cioè quello al quale spettava la prima mossa e la maggiore responsabilità, e dal quale perciò gli italiani si attendevano almeno un pizzico di patriottismo. Povera Italia.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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