Scontri a Tripoli
MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images
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Ecco perché Tripoli è nel caos

Milizie ribelli all’assalto del governo libico, che ha già dichiarato lo stato di emergenza. Gli errori e l'inerzia dell'Europa

Da una settimana si sparano colpi d’artiglieria e si registrano scontri a fuoco nei quartieri periferici di Tripoli. Azioni che per numero e intensità hanno fatto naufragare la fragile tregua raggiunta a fatica da qualche mese a questa parte, grazie alla protezione che il governo di Fayez Al Serraj insediatosi nel 2016 aveva trovato nella potente Brigata 301 di Misurata e in una serie di accordi - oggi risultati quanto mai precari - con altre milizie locali.

Il premier Al Serraj ha così dichiarato lo stato d’emergenza. L’ambasciata italiana a Tripoli è ancora in attività, nonostante un colpo d’avvertimento caduto a pochi metri dalla sua sede sul lungomare tripolino, ma lo spazio d’operazione dei diplomatici di Roma è ormai nullo (molti sono stati evacuati su una nave Eni).

Da quando le milizie ribelli guidate dalla Settima Brigata di Abdel Rahim Al-Kani si sono impadronite della strada che dall’aeroporto immette nel cuore della capitale libica, nessuno è più al sicuro e la città è ormai isolata, in preda a una resa dei conti per il controllo dell’intera Tripolitania.

Secondo alcune fonti, si contano già circa duecento morti. Se la Settima Brigata dovesse raggiungere il quartiere di Abu Salim - la porta d’ingresso al centro storico e all’area dove si trova la maggior parte di edifici governativi (al momento è controllato da una milizia rimasta fedele ad governo) - al premier Al Serraj non resterebbe che la fuga verso al base navale di Abu Sitta, dove nel marzo di due anni fa iniziò la sua non proprio brillante carriera, scortato da una fregata italiana per insediarsi quale capo di governo.

Imposto dalle Nazioni Unite attraverso una forzatura che Roma ha sponsorizzato e favorito fino all’inverosimile, Al Serraj è però sempre rimasto sempre ostaggio delle milizie islamiste che controllavano ciascuna la propria fetta di città, secondo uno schema disegnato dai clan locali che, nel proteggerlo, si garantivano gli introiti di ogni traffico lecito e illecito.

A spianargli la strada è stata soprattutto la milizia di Misurata, che in questi anni si è dimostrata capace di tenere in piedi il governo tripolino, sventando numerosi tentativi di uccisione del premier e respingendo le incursioni degli stessi membri dello Stato Islamico, che in passato hanno pensato anche di potersi infiltrare nella capitale.

Mediazioni andate a vuoto

A nulla sono serviti sinora i tentativi di mediazione dell’Unione Europea né quelli del ben più rilevante consiglio degli anziani, la Shura di Tripoli, un organo consultivo cittadino che da tempo lamenta l’inutile e pericolosa presenza di così numerose milizie per controllare una sola città.

Il problema è proprio questo: un vero esercito non è stato mai creato per risolvere il caos libico e questo ha compromesso ogni manovra del governo per conciliare la situazione, impedendo anche alla comunità internazionale di districarsi nella selva d’interlocutori più o meno affidabili.

Al momento, molte delle milizie emerse dalla guerra civile starebbero convergendo verso la capitale, senza però che vi sia alcuna certezza sulla loro fedeltà. Secondo le cronache, Al-Serraj dovrebbe ancora poter contare sulle Brigate rivoluzionarie di Tripoli, sulla Forza speciale di Dissuasione (Rada), sulla Brigata Abu Selim e sulla Brigata Nawassi. Ma, essendo tutte queste sigle finanziate anche dall’Unione Europea, un voltafaccia di una o persino tutte è una possibilità più che concreta.

A dimostrazione del pericolo che corrono il governo e lo stesso Fayez Al Serraj c'è la freddezza con cui proprio la Brigata 301 di Misurata sta gestendo la situazione.

Sabato scorso il premier ha inviato a Misurata il generale Mohammed Al-Haddad, capo delle forze armate governative nel distretto centrale, con un esito che Giordano Stabile de La Stampa descrive così: "Il generale ha incontrato i capi delle milizie locali e ha chiesto di inviare più combattenti per difendere il governo.

Il generale avrebbe poi avuto uno scontro con alcuni leader restii a impegnarsi. Nella serata di sabato la sua macchina è stata ritrovata vuota alla periferia della città.

Nessuno ha rivendicato il sequestro: probabilmente è stato ucciso”. La situazione è pertanto già precipitata e il governo italiano si è fatto trovare completamente impreparato di fronte a un’iniziativa non certo imprevedibile e che ha notoriamente origine a Bengasi, dove il generale Khalifa Haftar, sostenuto dai francesi e dai russi, prepara da tempo una marcia sulla capitale.

Forte dei suoi oltre 50 mila uomini, Haftar intende proporsi quale "salvatore della patria", e già alcune milizie di Tripoli si sono dette favorevoli a prestare giuramento di fedeltà al comandante per poi confluire nel suo esercito.

Quale futuro?

La debolezza strutturale del governo Serraj e la sua inopportunità, come abbiamo più volte raccontato, erano note da tempo agli osservatori internazionali. Ad aver accelerato la sua possibile capitolazione è stata però la decisione di indire elezioni presidenziali e parlamentari il prossimo dicembre. Un fatto contestato non solo dal generale Haftar, ma anche da Parigi, che non ha mai fatto mistero di voler "scippare" la Libia e il suo petrolio dal controllo di Roma, in qualsiasi modo.

Già lo scorso 2 maggio, la sede del comitato elettorale dove i cittadini libici avrebbero dovuto registrarsi per il voto di dicembre, è saltata in aria non appena aperta.

Rivendicato dallo Stato Islamico, quell’attentato è stato il campanello d’allarme che sul futuro della Libia si stavano addensando nubi scure.

Un segnale inascoltato da tutti, o quantomeno molto sottovalutato.

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Luciano Tirinnanzi