Non chiamateci schiavi, stiamo cercando il riscatto sociale (e voi non ci aiutate)
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Non chiamateci schiavi, stiamo cercando il riscatto sociale (e voi non ci aiutate)

Dopo il rogo della fabbrichetta di Prato, «Panorama» ha chiesto a una cinese di seconda generazione, giornalista del «Tirreno», di raccontare la vita dei suoi connazionali in Italia. Ci ha mandato un atto d’accusa.

di Malia Zheng

Il 1° dicembre, dopo lo scoppio dell’incendio nell’azienda cinese a Prato, io ero lì con i coniugi delle vittime. Sono trascorsi lunghi giorni dalla tragedia della ditta Teresa Moda e ancora molte persone continuano a giungere di fronte al capannone incendiato, per vedere con i loro occhi ciò che da giorni i media vanno raccontando: sette morti, due feriti gravi, due salvi per miracolo. Lì dentro mangiavano, dormivano e lavoravano. In comune condividevano gli spazi del capannone. In comune hanno vissuto le fiamme ardenti che hanno devastato l’unico tetto che li proteggeva dal buono e cattivo tempo.

Ma che cosa è veramente successo a Prato? E chi ne ha colpa? È diventata quasi una sfida all’ultima parola. Le accuse arrivano per tutti, ma fino a prova contraria non servono a risolvere i problemi. Raccontare in poche righe quale sia la reale situazione della comunità cinese a Prato è impossibile. Ciò che oggi più che mai si fa fatica a comprendere è che i cinesi in Italia arrivano con il bisogno di soddisfare necessità primarie, le stesse che avevano spinto gli italiani antenati, parenti, conoscenti, a emigrare altrove: cibo, soldi, riscatto sociale, benessere della famiglia e tutto ciò che va oltre il sacrificio personale. «Il mio dolore per la loro serenità» dice un operaio di Prato, giunto in Italia dalle campagne del Fujian, incapace di sfamare e offrire ai suoi cinque figli un’educazione. Come lui sono tanti.

C’è un capitolo del libro I cinesi di Prato, scritto da Hong Liping, ex assessore alla Cultura della regione dello Zhejiang. Quel capitolo s’intitola: «Prato, vorrei dirti ti amo, ma non è facile». La scrittrice racconta degli ostelli abusivi e di come, con pochi soldi in tasca, alcuni cinesi si arrangino nei primi giorni in Italia: «A quelli che arrivano senza lavoro e senza posto dove dormire, certi connazionali offrono un letto per 6 euro a notte, qualcosa in più se nel servizio si vuole includere il pasto».

Wenzhou è una provincia dello Zhejiang, ed è da quella provincia che arriva l’80 per cento dei cinesi in Italia. «C’era molta povertà nella regione, i raccolti erano scarsi e la gente moriva di fame. Con la riforma di Deng (Xiaoping, ndr), molti contadini dello Zhejiang si sono spinti oltre i confini regionali, altri si sono avventurati oltreoceano. La loro determinazione nasce dal bisogno di mangiare e di portare ricchezza alla loro famiglia»: così ha raccontato il professor Zhou dell’Università di Wenzhou, in un’intervista per Radici, trasmessa su Rai 3 lo scorso giugno. Ecco, è proprio sulla scia di questo sentimento raccontato da Zhou che sono arrivati i primi cinesi in Italia.

Gli imprenditori cinesi di oggi sono quelli che sono arrivati come operai e con fatica hanno poi costruito una loro attività indipendente. Sono quelli che i sociologi chiamano cinesi di prima generazione: quelli che con determinazione hanno dato ai figli una casa e una vita più serena. Questi stessi imprenditori hanno passato l’attivita ai figli, a loro volta istruiti in scuole italiane ed educati secondo l’etica e il galateo italiani, a rispettare le norme e le leggi italiane. Sono i figli degli imprenditori cinesi, i cinesi di seconda generazione, che hanno permesso a queste attività di entrare in norma e d’inserirsi nella società. Io sono una cinese di seconda generazione.

I figli cinesi che si affiancano alla gestione delle attività dei genitori non costituiscono l’unica realtà imprenditoriale dei cinesi a Prato o nelle altre grandi città italiane. A loro si affiancano quelli che un tempo sono stati operai e che, dopo aver visto il successo dei loro connazionali e datori di lavoro, hanno mirato a quello stesso sogno. Purtroppo però, in mancanza di soldi, di strumenti, della conoscenza linguistica e legislativa, costoro fanno fatica a regolarizzarsi. Questa realtà è apparentemente molto simile al caso della ditta Teresa Moda, dove sembra che gli stessi datori di lavoro condividessero lo stile di vita dei dipendenti. La legge impone costi a tutti coloro che vogliono avviare un’attività, nel mercato si lanciano domande cui solo chi offre manodopera a basso costo può rispondere. E se a tutto ciò si aggiunge la mancanza di fondi, indispensabili a sopperire a questi costi, ecco che si finisce a tagliare dove si può.

In realtà, come dimostra anche una ricerca di Fabio Berti, Valentina Pedone e Andrea Valzania dell’Università di Siena, raccolta nel volume Vendere e comprare, processi di mobilità sociale dei cinesi a Prato, i cinesi non sono soltanto imprenditori oppure operai, esistono anche cinesi di ceto medio. Non cercano il riscatto sociale, si accontentano di gestire la loro piccola attività (agenzia viaggi, centro estetico, negozio di abbigliamento, oppure sono parrucchieri, camerieri, baristi).

La cultura cinese pone molta importanza al senso di famiglia che lega amici e parenti. Ed è proprio questo senso di appartenenza, di grande famiglia allargata, che ha determinato il grande flusso migratorio: il primo arrivato ha aiutato il secondo, il secondo ha consigliato il terzo e così via. I giornalisti, per provocazione o per ignoranza, descrivono gli operai cinesi come gli schiavi del 2000. L’utilizzo del termine è sbagliato e falsa la rappresentazione. Si definisce schiavo colui o colei che soggiace alla volontà altrui, ma nessun cinese che lavori in una fabbrica in Cina o in Italia è schiavo di nessuno. Sono consapevoli della paga offerta e delle condizioni di lavoro e sono loro in prima persona liberi di accettare le offerte di lavoro. Nessuno punta loro un pugnale alla schiena o una pistola alla tempia, nessuno chiude alle loro spalle le porte dei capannoni, e soprattutto nessuno di loro lavora 24 ore al giorno. Non esiste e non è, a livello fisico, umanamente possibile.

Al contrario è vero che iniziano a lavorare nella tarda mattina e finiscono a tarda serata; è vero che si possono licenziare; è vero che esistono turni di lavoro e pause. Sul web c’è chi commenta: «Io sono italiano, ma a volte, a lavorare a certe condizioni, mi sento schiavo, eccome: di me stesso, di chi vuoi tu... Sta di fatto che i diritti del lavoratore ce li stiamo dimenticando, e se non sei un lavoratore dipendente a tutti gli effetti, o sei un volontario masochista, un po’ schiavo lo sei, italiano o cinese che tu sia. E non credo siano cose tanto differenti. Si tratta comunque dei diritti che siamo disposti a svendere o a ignorare, pur di lavorare».

Un’altra verità che sfugge ai media e all’opinione pubblica è che gli operai cinesi forse non sono tutelati dai sindacati italiani, ma vi garantisco (e l’ho visto con i miei occhi) che se hanno bisogno di qualcosa o un’esigenza si fanno sentire, eccome. I cinesi, soprattutto i wenzhounesi, tengono molto alla loro reputazione (la radice «mianzi», in cinese, vuol dire faccia) e per loro avere un operaio insoddisfatto equivale ad avere un’attività che non produce; avere un’attività che non produce vuol dire non essere capaci come imprenditori, vuol dire non lavorare bene.

Sapete che cosa comprende la paga di un operaio cinese? Per molti il datore di lavoro si costituisce come guida e «insegnante di impresa». In più, il senso di unica grande famiglia che lega i wenzhounesi e che li spinge ad aiutarsi l’un l’altro si dimostra proprio con il «pacchetto retributivo»: i datori di lavoro, oltre allo stipendio e i contributi previdenziali (che gli operai cinesi non riscuoteranno mai, per il semplice fatto che preferiranno passare gli ultimi anni della loro vita in Cina), coprono le spese di vitto e d’alloggio. In più sono a carico del datore di lavoro i costi per il rinnovo del permesso di soggiorno, equivalenti a circa 200 euro.

Dal mio punto di vista la Chinatown di Prato nasce non per volere dei cinesi. I cinesi non si sono imposti pensando di creare un loro quartiere o pensando di lavorare illegalmente. La realtà cinese, per come ci appare alla luce degli ultimi eventi, nasce per la negligenza degli italiani che hanno insegnato ai nuovi cittadini arrivati come funziona e non come dovrebbe funzionare l’Italia. La realtà cinese nasce dal disinteresse degli italiani per il loro Paese, per la città, per le strade e soprattutto per le leggi a favore dell’interesse personale e dei diritti del nuovo arrivato, ignorante delle norme sociali, di costume e di mercato.

Questa indifferenza ha dato vita alla Chinatown così come l’abbiamo trovata e scoperta ieri, così come la ritroviamo e la scopriamo oggi da finti indignati e sbalorditi spettatori e mai attori di questo fenomeno sociale. I sequestri che stanno facendo in questi giorni non servono a niente. È un autogol all’economia interna. Occorrono invece maggiore prevenzione e informazione, avvisi che regolarizzino e spieghino ai cinesi non a norma come regolarizzarsi. Occorrono controlli che veicolino e accompagnino questi processi e che monitorizzino non solo le aziende cinesi ma anche italiane che hanno insegnato ai cinesi come «funziona» l’Italia.

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