Invece di criticarci provate a imitarci
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Invece di criticarci provate a imitarci

Per il filosofo Julian Nida-Rümelin, ministro nel governo Schröder, non esistono più idee di destra e di sinistra. Ma l'Italia deve comunque adottare un piano simile a quello che ha rilanciato la Germania dieci anni fa

Ricordate l’ascensorista? Quel signore in  divisa rossa che nei film dei primi Novecento aziona la leva dopo aver selezionato  il piano? Un lavoro scomparso,  che rende bene l’idea della fine che faranno  il 40 per cento dei mestieri in cui l’uomo ha il solo ruolo di interfaccia tra due intelligenze artificiali o due macchine.  I robot e i computer solleveranno l’uomo dal ruolo di interfaccia. E molti lavori dall’oggi al domani non esisteranno più. Bisogna crearne di nuovi e anche in fretta.

"Per questo Italia  e Francia oggi devono fare qualcosa di simile  all’agenda Schröder 2010, anche solo perché  lo abbiamo fatto noi" spiega il tedesco Julian Nida-Rümelin, filosofo politico molto popolare  in Germania. "Se una grande economia  come la Germania ha realizzato questa  riforma, è difficile per gli altri ignorare la  competizione". Attivo nella critica delle azioni  politiche del governo tedesco (dopo l’affare di Edward Snowden tuonò contro la cancelliera Angela Merkel finché questa non cacciò il capo della Cia), insegna all’Università Ludwig-Maximilians di Monaco di Baviera.  

Classe 1954, è un attento studioso  di politiche europee, con un passato di  sinistra ("Ma mai marxista" tiene a sottolineare).  In tema di politica europea, il professor Nida-Rümelin sottolinea che oggi il quadro è totalmente diverso  da quello della fine degli anni Novanta, quando i leader progressisti intrapresero  la famosa "terza via". All’indomani della  caduta del Muro di Berlino, cercarono di conciliare il capitalismo liberale e  il socialismo democratico; la fede nel  libero mercato e il sostegno dello stato  nella società e nell’economia. E nella  Germania di Gerhard Schröder funzionò.  "L’intenzione di Renzi oggi è simile a  quella che avevamo più di dieci anni fa"  osserva. "Mi ricordo che anche noi non  abbiamo avuto subito un piano preciso  su cosa cambiare e come. Ma l’idea ferma  era che la struttura fosse troppo fissa  e che si dovesse cambiare".  

Oltre a occupare la poltrona di  ministro della Cultura, per Schröder il filosofo è stato centrale nella preparazione  teorica e filosofica di quelle  che sarebbero poi diventate azioni di  governo. Lasciata la carica di ministro,  con rammarico del cancelliere ancora in  carica, è tornato all’insegnamento della filosofia etica, incarico che altrimenti  avrebbe perso. Difficile dire oggi se sia  di destra o di sinistra perché lui stesso, in un simposio a Monaco su filosofia  e politica a cui ha partecipato insieme  a Jürgen Habermas, ha sostenuto che  non esistono più una filosofia di destra  e una di sinistra. "L’assenza di una  precisa distinzione è un vantaggio per la  democrazia. Anche se ai politici questo  dispiace, perché vorrebbero facili ricette  per orientarsi nel quadro attuale, molto più complicato di quello di quindici  anni fa".

Panorama lo ha incontrato per  un’intervista esclusiva.  

In Italia la rievocazione della "terza  via" è criticata, in primo luogo, da chi  fu un iniziatore di quella esperienza. Massimo D’Alema ha detto che i tempi  sono radicalmente cambiati, che ora  bisogna riscoprire lo Stato, che  l’eccesso di liberalizzazione ha portato  enormi disuguaglianze sociali e  instabilità economica e che addirittura  è stato causa della crisi del 2008.  Insomma, un fallimento.  

D’Alema ha ragione nella misura in cui  la cosiddetta "terza via" ha fatto troppe  concessioni al programma neoliberale.  In Germania, per esempio, ridurre  drasticamente l’aliquota massima e  l’imposta sul reddito delle società fu un  errore. Eppure  l’alternativa sarebbero  stati milioni di nuovi  disoccupati e l’erosione  dei sistemi di  garanzie sociali. Per  noi tedeschi, dopo  l’estenuante riunificazione  delle due  Germanie, il pacchetto  di riforme che ha  portato alla liberalizzazione  del mercato  del lavoro e alla  combinazione di  misure di promozione del lavoro e di  nuove condizioni fu un passo decisivo  per la ripresa economica e sociale.  

Un esempio?  

La cosiddetta "regola della ragionevolezza": l’introduzione dell’obbligo, dopo 12  mesi di disoccupazione, di accettare  l’offerta di lavoro indipendentemente  dal tipo di qualificazione dell’ultimo  lavoro svolto. Fu un grande successo. La  disoccupazione fu dimezzata nel giro di  pochi anni e ci fu una crescita record  delle condizioni sociali di occupazione.  La flessibilità può tradursi in ripresa dello stato sociale, anche senza un  aumento significativo del Pil. È evidente che l’Italia non può copiare la Germania, perché le condizioni sono differenti. Eppure la riforma del lavoro resta un  passo necessario.  

Nel suo ultimo libro (La follia dell’accademizzazione),  lei sostiene i corsi di formazione rispetto alla laurea a  tutti i costi, che ancora in parecchi casi  rappresenterebbe solo la realizzazione  del sogno piccoloborghese del dopoguerra.

 Qui in Europa, a differenza degli Stati Uniti, abbiamo sviluppato un concetto  di studio legato alle scienze umanistiche,  alla formazione della persona a  prescindere dalla formazione professionale.  Questo è un bene, ma non per tutti.  Un buon sistema di  formazione deve  assecondare le  inclinazioni, le  capacità, le vocazioni  e i progetti di vita più  diversi. Se tutti si  indirizzano verso il  corso di laurea invece  di seguire scuole di  specializzazione e  formazione professionale  (che qui in  Germania sono  ottime), questo  diventa un danno, e fonte di disoccupazione.  Un giovane non deve per forza  laurearsi per essere qualcuno.  

Il modello di lavoro delle start-up  americane, finanziate da privati, che si  sta diffondendo contemporaneamente  all’Information and communication  technology (Ict), funzionerà in Europa  come sta funzionando negli Stati  Uniti?  

Nella cultura europea lo stato ha una  certa responsabilità sull’economia. Negli  Usa l’economia è autonoma. Questo fa  la differenza. In più noi siamo meno  veloci nella realizzazione delle start-up. Non possiamo imitare quel modello così  com’è: da noi non funzionerebbe.  

Nell’era della globalizzazione, con  Google e Facebook sempre più presenti, si fa difficoltà a trovare un stanno ridisegnando economia e  politica.

Queste aziende stanno fissando le regole  del gioco. Se l’Europa cede e accetta di  giocare secondo le loro regole, perde  tutto. Stiamo lasciando fare a loro le  infrastrutture mondiali. Ciò non è  ammissibile. Non è compito di un’azienda stabilire le regole e noi non dobbiamo lasciarglielo fare. L’alternativa è definire  le nostre regole. Sviluppare, per esempio, un progetto per un Google europeo, come ha fatto la Cina.

Che cosa pensa del patto transatlantico,  il Ttip, il partenariato per il  commercio e gli investimenti tra  Europa e Usa? Si parla di una ricaduta  positiva per 120 miliardi di euro...  

Sono molto scettico. Escludere la Russia  significherebbe erigere un altro muro,  sebbene di natura diversa, in Europa.  Un nuovo Est e un nuovo Ovest. E  questo è molto pericoloso. Tra 10 anni  un’economia gigantesca come quella  cinese, vedendo questa nuova realtà  potrebbe pensare di stringere un patto  economico con la Russia, che potrebbe  portare a situazioni anche peggiori di  quelle viste nel passato. E poi quale  ruolo avrebbe la cultura in questo patto?  Negli Usa la cultura non ha a che fare  con lo stato. In Europa è finanziata dallo  stato. Escludere la struttura culturale dal  patto sarebbe una rovina per l’Europa e  per il turismo.  

Lei ha fiducia nell’Europa, ma i  populismi stanno prendendo forza.  Marine Le Pen vince nei sondaggi...

C’è un movimento antieuropeo di destra  e di sinistra. Gran parte dello scetticismo  che la destra usa per vincere le elezioni è  motivato: abbiamo un problema. La  paura di perdere la possibilità di  controllare quanto accade in politica è  giustificata. Bisogna agire in modo da  evitare il rischio di ritrovarsi con uno  stato europeo, ma senza democrazia.

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Barbara Carfagna