"I miei 11 anni di imputato per mafia"
ANS /Guido Montani
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"I miei 11 anni di imputato per mafia"

Un'intervista rivelatrice al sette volte presidente del Consiglio dopo l'assoluzione del 2004. La gallery fotografica - I processi - Il commento di P. Guzzanti

Panorama, 21 ottobre 2004

Tremilaottocentoquarantadue giorni: tanto è durata la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, accusato d'omicidio a Perugia e d'associazione mafiosa a Palermo. Il 15 ottobre la Cassazione lo ha liberato definitivamente per la seconda volta: a 84 anni, 11 dei quali trascorsi da imputato, Andreotti non è né il mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, né il sodale dei mafiosi siciliani. Anche dopo l'assoluzione, però, le polemiche non si sono placatew. Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e magistrato simbolo del processo palermitano ad Andreotti, insiste: «È stato mafioso» scrive sulla Stampa, assicurando che la Cassazione ha «confermato che fino al 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i boss dell'epoca». Franco Coppi e Giulia Bongiorno, i due penalisti del senatore, gli rispondono che «è oggettivamente impossibile prevedere che cosa scriverà la Cassazione: non ci sono le motivazioni. Ma il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di modificare proprio quel punto della sentenza d'appello».

Lui, Andreotti, sul tema non parla. Il giorno dell'assoluzione si è detto felice d'essere arrivato vivo alla fine dei suoi processi. Poi non ha aggiunto molto. Panorama lo ha intervistato in esclusiva.

Vuole fare un bilancio esistenziale dei suoi due processi?
Li ho vissuti con amara sorpresa, anche per il modo ambiguo con cui è nato il secondo, quello di Palermo. Ma, ringraziando Dio, ho resistito.

Perché crede di essere stato sottoposto a questo calvario giudiziario?
Forse ero da troppo tempo ballerina di prima fila e c'era chi voleva cambiare del tutto lo spettacolo.

Lei ha parlato di un «mandante occulto»: chi è? S'è accennato ad ambienti americani: è partito tutto oltreoceano? O pensa a suoi avversari politici in Italia?
Un mandante occulto: che vi sia ciascun lo dice... con quel che segue. Qualche venatura d'oltreoceano c'è, ma non governativa. C'è un pentito, o meglio, spero che lo sia, a doppio servizio.

Di quale pentito parla?
Francesco Marino Mannoia: collabora con la giustizia italiana e con quella americana e mi incuriosisce. Quanto agli Stati Uniti, però, ho avuto in processo la testimonianza molto gratificante di tre ambasciatori degli Stati Uniti: Maxwell Rabb, Peter Secchia e Vernon Walters. E questo è più che sufficiente.

Per il suo processo palermitano lei ha attribuito qualche responsabilità a Luciano Violante. Conferma?
Certamente fu lui a dare corso a una telefonata anonima, investendo il tribunale di Palermo che non c'entrava niente. Ma non porto rancore a nessuno. La Scrittura dice: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva».

Dopo l'assoluzione lei ha dichiarato: «Qualcuno, da oggi, dormirà un po' meno tranquillo». A chi si riferiva? Ai pm di Palermo? Ai mafiosi pentiti che l'hanno accusata? O al «mandante occulto»?
Lasciamo perdere. Lo strano di questa vicenda è la sua prefabbricazione: nella sentenza di rinvio a giudizio a Palermo si dice: «Dopo due udienze». Ma l'udienza fu una sola. Avevano preparato prima il modulo?

Cosa direbbe al suo primo accusatore, Tommaso Buscetta, se fosse vivo?
Buscetta non mi attribuì mai il delitto Pecorelli: è stata una montatura altrui. Comunque, Dio l'abbia in gloria.

Nell'assoluzione resta la macchia della prescrizione per i suoi presunti collegamenti mafiosi fino alla primavera del 1980.Spera che le motivazioni possano portare qualche sorpresa positiva per lei?

Certamente lo spero. Quel che mi ha colpito di più, in Cassazione, sono state le parole del procuratore generale, Mauro Iacoviello. Abituato da anni a pm che si schieravano sempre a sostegno dell'ipotesi accusatoria, sono rimasto favorevolmente impressionato da un rappresentante dell'accusa che invece l'ha demolita pezzo per pezzo, chiedendo addirittura il rigetto del ricorso dei suoi colleghi pm. Ma Iacoviello ha anche attaccato proprio la parte della sentenza d'appello relativa alla prescrizione, in cui si ritiene provato l'incontro alla tenuta di caccia.

Lei parla del famoso, presunto incontro tra lei e il boss Stefano Bontate nella sua tenuta di caccia nel Catanese?
Sì. Il pentito Angelo Siino aveva indicato la data dell'incontro tra fine giugno e inizio luglio 1979. Io ho dimostrato la mia impossibilità di essere in Sicilia in quel periodo: ero in Giappone e in Russia. Il tribunale m'ha dato ragione.

In appello i pm hanno detto che Siino s'era sbagliato.
Già questo mi sembra piuttosto anomalo come argomento: se il pentito viene smentito, che senso ha dire che ha sbagliato solo le date? Ma comunque i miei avvocati hanno chiesto di produrre tutti i documenti diretti a provare dove mi trovassi in tutte le altre possibili date diverse da quelle indicate da Siino. Ero presidente del Consiglio e quindi potevo agevolmente ricostruire i miei impegni. La documentazione non è stata accettata, ma la sentenza d'appello afferma che l'incontro potrebbe essere avvenuto in un altro momento. Cioè in una data in cui avrei potuto dimostrare che ero altrove. E per questo il procuratore generale ha parlato di violazione di diritto di difesa.

Caselli, però, sostiene che la Cassazione ha «confermato l'accusa di un Andreotti mafioso fino al 1980».
Non voglio rispondergli. Per me il processo è finito. Ho cose molto più serie da fare. L'assoluzione ha smentito oltre 40 pentiti.

Questo risultato dovrebbe indurre qualche riflessione sul loro impiego?
Sì: maggiore prudenza. E anche un po' più di risparmio di denaro pubblico. Del resto, già la Corte d'appello di Palermo, assolvendomi, ha scritto che i pentiti, contro di me, potrebbero essere stati mossi «da antipatia politica, dal particolarissimo interesse accusatorio degli inquirenti o dal cinico perseguimento di benefici personali». E nessuna delle tre ipotesi mi pare meritevole.

Lei ha mai provato a fare un calcolo di quanto, in questi 11 anni, sia costata l'attività giudiziaria contro l'imputato Andreotti?
Il calcolo è impossibile, e come contribuente mi preoccupa. Non lo facciano più.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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