L'altra faccia della fanta-Milano
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L'altra faccia della fanta-Milano

Lo stop per abusi edilizi dato dalla Procura a un centinaio di cantieri. L’allarme per la sicurezza, nonostante il sindaco Beppe Sala minimizzi. Un traffico senza governo che rende le strade caotiche e pericolose. Da ultimo, anche gli scontri nella periferia «difficile». Fallita la narrazione della metropoli da primato, secondo chi l’amministra, la realtà presenta il conto. E a pagare, come sempre, sono i suoi cittadini

«Per trovare la fermata della metro dovete entrare nel cantiere». L’indicazione del barman è sibillina e la famiglia di turisti spagnoli con trolley è perplessa. Ma non ci sono errori: la fermata Sant’Ambrogio della M4 inaugurata in pompa magna a inizio ottobre dal sindaco Giuseppe Sala e dal ministro Matteo Salvini è ancora oltre un labirinto di transenne, fra mucchi di sabbia e piastrelle, tubi Innocenti, macerie, ruspe, gru, camion e fili elettrici. A 25 metri di profondità il trenino funziona ma in superficie di definitivo c’è solo il provvisorio; vale per tutte le fermate coinvolte nella Cerchia dei Navigli, dal Policlinico a Santa Sofia, da Vetra a De Amicis. Chi sale dal centro della terra ipertecnologico si ritrova dentro angoli di Beirut. Un raro operaio col caschetto giallo allarga le braccia: «Qui fino a marzo 2025 non riapre niente, andate a protestare in Comune».

È la Milano che «funziona». È la surreale metropoli tascabile di Sala, dove la narrazione non coincide mai con la realtà. È la fotografia di una galassia fashion descritta come un paradiso di vetro, acciaio, silicio e «trend topic» dalla stampa ultra-compiacente (il sindaco è un grande allenatore di giornalisti). Una città virtuale che avanza per inerzia. Se Vanity Sala, nonostante gli sforzi, non è riuscito a distruggerla in otto anni è solo perché Milano ha una forza intrinseca che arriva dalla sua storia, una capacità di adattarsi a ogni tempesta. Il giorno dopo essere stata devastata dai Black Bloc (primo maggio 2015), i milanesi scesero in strada a ripulirla. Lo spirito è quello, una spremuta di tiremm innanz che oggi viene tradotto banalmente con «resilienza». Ma tirare avanti è un problema, anzi uno slalom fra cantieri sociali, politici, strutturali. Come quello della sicurezza. Milano è diventata pericolosa. Dopo le otto di sera è sconsigliabile frequentare le aree attorno alle stazioni, dopo le dieci meglio non passeggiare per il centro con un orologio al polso, dopo mezzanotte auguri. In periferia dominano le baby gang islamiche, in centro i raid dei maranza maghrebini e sudamericani non si limitano al weekend. Davanti a scenari da Gotham City il sindaco continua a ripetere che «c’è differenza fra realtà e percepito» aggrappandosi alla sociologia da convegno radical. Per lui «ad alimentare la paura è il centrodestra, c’è un gap fra il reale e ciò che la politica, in modo strumentale, vuol fare apparire. Sono disordini fra ragazzini che vengono da fuori».

È però consapevole che la situazione sta degenerando e le politiche di accoglienza sono un fallimento. E frusta i suoi: «Da uomo di sinistra devo dire che sono veramente stufo marcio di dover subire la questione sicurezza. La mia parte politica non può continuare a balbettare, ma deve essere in grado di gestire la situazione». Chiacchiere, risponde il gestore dello storico bar «Vista Darsena» sul Naviglio Grande, costretto a chiudere per le violenze, le risse, le minacce ai clienti, le sedie e i tavolini trovati in acqua la mattina dopo. «Chi si siederebbe a un tavolino a bere una birra con il rischio di prendere un coccio in faccia?», si domanda Ugo Fava. «Avevo difficoltà anche a trovare dipendenti. Molti di loro non volevano lavorare la sera per paura; una cameriera è stata anche minacciata con un coltello. Questo posto, visto che non è davanti al Duomo, è completamente abbandonato dall’amministrazione».

Non è l’unica terra di nessuno. La settimana scorsa nel quartiere Corvetto, dopo la morte di un giovane egiziano finito contro un muro con lo scooter mentre fuggiva dai carabinieri, 30 suoi amici hanno inscenato una rivolta stile banlieue parigina: cassonetti e masserizie bruciati, lancio di pietre contro gli autobus, fumogeni e petardi nella notte con lo scopo di attirare le forze dell’ordine e suscitare scenari da guerriglia urbana. Per poi postare tutto sui social. Non siamo ancora ai livelli di Saint-Denis, dove una giuria criminale premia la miglior rissa della settimana, ma ci stiamo arrivando. Secondo i dati della questura l’81 per cento delle rapine su pubblica via e il 96 per cento dei furti con destrezza, sono commessi da stranieri. Per Riccardo De Corato, ex vicesindaco con Gabriele Albertini e Letizia Moratti, oggi deputato di Fratelli d’Italia, la responsabilità è politica. «A Milano c’erano 500 vigili di quartiere, c’erano i militari nelle zone più a rischio con l’operazione “Strade sicure”, c’era la polizia urbana di sera sugli autobus, c’erano poliziotti in pensione di ronda sui metrò. Pisapia per approccio ideologico, e Sala perché è alla mercé del buonismo piddino, hanno smantellato tutto. Questa è la Milano di Pierfrancesco Majorino e Anna Scavuzzo. Il sindaco dispone di 3.500 vigili urbani ma li usa solo per fare cassa con le multe. Risultato, la Milano da bere è diventata una Milano da coprifuoco».

Narrazione e realtà. Mentre via Monte Napoleone è la più ricca del mondo davanti a Fifth Avenue a New York e Regent Street a Londra, a due fermate di metro si rischia il Bronx, fra cantieri mai chiusi, degrado, caos viabilistico e buchi di bilancio. A Milano servono 300 milioni per mantenere i servizi: come recuperarli? Mettendo le mani in tasca ai cittadini e agli automobilisti. Nell’ultimo anno l’amministrazione ha aumentato il ticket dei trasporti, l’ingresso in Area C, la tassa di soggiorno, i balzelli per l’occupazione del suolo pubblico di bar e ristoranti. Nel 2025 è previsto il salasso per i Suv (anche quelli elettrici incentivati dalla giunta verde) e l’estensione dell’Area C a pagamento anche nei weekend per tartassare i turisti del mordi e fuggi. Eppure c’era un miliardo e mezzo a disposizione, quello degli oneri di urbanizzazione mai incassati per lo scandalo della «Rigenerazione urbana», un dossier finito in procura che oggi fa tremare il sindaco, la giunta, gli uffici. Oltre 100 cantieri sigillati dai pm, che hanno indagato funzionari, tecnici comunali, architetti, facilitatori. Andava in scena un sistema, un rito ambrosiano dell’urbanistica: in nome delle ristrutturazioni, capannoni venivano trasformati in palazzi ultramoderni, case di due piani in grattacieli con semplici «Scia», la Segnalazione certificata di inizio attività, e autocertificazioni. Nel mirino c’è anche la Commissione del paesaggio, emanazione diretta del Comune, che secondo l’accusa avrebbe agito «in un contesto caratterizzato da conflitti di interesse e opacità».

Per i giudici Luisa Savoia, Caterina Ambrosino e Valeria Alonge, circolari comunali e delibere di giunta non possono sostituire le leggi nazionali e regionali. «Gli strumenti di pianificazione comunali», hanno scritto nelle ordinanze che denunciano gli abusi edilizi per aggirare le norme «non possono produrre né l’implicita abrogazione, né la non applicabilità delle norme regionali e nazionali sull’urbanistica». Secondo Sala tutto questo era necessario per non paralizzare la città. Ma i giudici ribadiscono che «non esiste alcuna confusione legislativa. La disciplina dettata dal legislatore non è stata né abrogata né diversamente perimetrata in ragione di specifiche caratteristiche dei singoli comuni». Uno scandalo che ha fatto dire a Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico: «La chiamano Rigenerazione urbana, ma in questi anni non si è vista solo densificazione a vantaggio zero per i cittadini». E ha fatto ammettere al guru dei Verdi, Carlo Monguzzi: «Questa è la pagina più buia della sinistra milanese». Un grosso guaio per la Milano palazzinara dalla doppia faccia e dalla doppia morale: green per il consueto storytelling ma nella realtà bulimica di cemento. In un simile contesto il salvagente è arrivato dal governo, che per la felicità del Pd e dei costruttori ha presentato il decreto «Salva Milano», nel quale si prevede che una ristrutturazione non necessiti di pianificazione urbanistica, né di piani attuativi di adeguamento dei servizi. Non un condono ma una norma che ipoteca il futuro e vale per tutta l’Italia. Lo potevano chiamare semplicemente «Salva Sala» e sarebbe stato più realistico.In questo contesto il ritorno alla casella di partenza per lo stadio Meazza (persi cinque anni), il taglio di centinaia di alberi (ma la giunta green continua a sproloquiare di «emissioni zero»), il caos urbanistico causato dalle piste ciclabili senza criterio (riguardo alle quali, dopo l’investimento e la morte della ciclista Crstina Scozia, è comunque indagato l’ex assessore alla Mobilità e oggi alla Sicurezza Marco Granelli) passano in secondo piano. Sulla porta di una tabaccheria del centro c’è la scritta: «Vietato l’ingresso ai monopattini», un delirio a due ruote regalo dell’amministrazione progressista dei Sala boys. Nel frattempo comincia a piovere. I quattro spagnoli che si avviano verso il cantiere della M4 a Sant’Ambrogio hanno un problema in più: guadare le pozzanghere di palta del cantiere per arrivare fino alla scalinata che porta al trenino blu. Osservano la basilica con le scarpe e i calzoni infangati. E come direbbe un grande milanese d’adozione, Alberto Arbasino, «hanno le facce smarrite di chi ha perso gli amici e la corriera».

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Giorgio Gandola