Lodi e il caso mense scolastiche: un'eredità dei governi di sinistra
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Lodi e il caso mense scolastiche: un'eredità dei governi di sinistra

Se i genitori non pagano il ticket, i bambini non possono mangiare a scuola. La Lega approva, scoppia la protesta. Eppure la norma risale a D'Alema e Amato. E in un Comune vicino all'occhio del ciclone accade che...

Roma, 31 agosto 1999. Mentre a Coverciano Dino Zoff decide di lasciare a casa Alessandro Del Piero e di schierare Pippo Inzaghi e Christian Vieri contro la Danimarca nella partita per la qualificazione agli Europei, al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi firma il decreto sull’immigrazione presentato dal Governo presieduto da Massimo D’Alema. 

Lodi, 11 settembre 2018. Luca, alunno della scuola elementare Madre Cabrini, torna a casa e chiede al padre perché il suo migliore amico, originario del Togo, non ha mangiato in mensa con lui ma è rimasto in classe con un panino. 

L'affaire delle mense un'eredità di sinistra

In mezzo a questi due avvenimenti, così distanti nel tempo, ci sta tutto quello che ha portato alla ribalta della stampa mondiale l’affaire delle mense scolastiche di Lodi, per alcuni emblema del razzismo leghista, per altri uno strumento anti-furbetti. In realtà l’applicazione di una norma vecchia di vent’anni che piace o meno secondo la direzione del vento. Manifestazioni di piazza, raccolta di firme, nascita di associazioni, ricorsi in tribunale. Lodi è diventato l’occhio del ciclone politico e mediatico che ha finito per travolgere e strumentalizzare i bambini, incolpevoli consumatori dei pasti del contendere ed esibiti a schiere davanti a flash e telecamere.   

Tutto comincia, in sordina, nell’ottobre del 2017, quando la sindaca architetto, la leghista Sara Casanova, decide di mettere mano al vecchio regolamento comunale che disciplina l’erogazione dei contributi economici ai meno abbienti per accedere a determinati servizi. La giunta decide di stringere le maglie per coloro che hanno diritto a uno sconto. Come? Recuperando il vecchio decreto D’Alema del 1999 e le modifiche del 2000 del governo Amato per obbligare, a rigore di legge, i cittadini extracomunitari a presentare, per godere delle agevolazioni economiche, non solo l’Isee sui redditi in Italia, ma anche la certificazione delle eventuali proprietà possedute all’estero. Proprio così. Furono i governi D’Alema e Amato a introdurre la norma applicata dal comune di Lodi. Per dimostrare di essere povero devi dichiarare anche quanto possiedi nel paese di origine. Non solo case, ma anche auto, conti correnti e depositi bancari. Lo stesso prevedono le linee guida di Regione Lombardia e, per certi servizi, di Regione Veneto. 

La difficoltà di procurarsi i documenti

Nessuno però si straccia le vesti. Infatti, nel 2017, a scandalizzarsi erano stati in pochi. L’opposizione in consiglio comunale aveva sì protestato denunciando il carattere discriminatorio del regolamento e qualche genitore, intervistato dalla stampa locale, aveva sottolineato la difficoltà a procurarsi certi documenti. Tutto qua. D’altra parte le novità entravano in vigore solo l’anno successivo.

Qualcuno, soprattutto i cittadini originari dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ha approfittato delle vacanze estive in patria per sobbarcarsi una non agile e costosa caccia al certificato. Altri si sono rivolti ai propri consolati. Che o non hanno risposto o hanno ammesso di non essere in grado di fornire la documentazione richiesta. L’estate trascorre così nell’incertezza e nella preoccupazione dei genitori stranieri. Trattandosi di famiglie con più bambini e con reddito modesto, accedere a quei servizi diventerà impossibile: significa passare da 2,20 a 5,20 euro al giorno per la mensa, da 77 a 570 euro al mese per gli asili nido e da 50 a 210 euro per i servizi di scuolabus. Perché la mancata presentazione dei documenti comporta l’ingresso nella fascia di reddito più alta

La protesta delle famiglie egiziane

Sempre d’estate, però, si insedia il governo gialloverde. E le osservazioni critiche diventano tema di scontro politico. Prima dell’inizio dell’anno scolastico, l’associazione Al Rahma, che rappresenta le famiglie egiziane, chiede al comune di intervenire; ma la risposta è che il regolamento è uguale per tutti. La protesta dilaga. Le famiglie interessate dal provvedimento sono 135. Gli egiziani non mandano i figli a scuola per tre giorni, il caso diventa di interesse nazionale.  Quei bambini, assenti in classe, sono fuori per i fotografi. Manifestano con i genitori in piazza Broletto, davanti al municipio. Adelrahman El Said, presidente dell’associazione e promotore dello sciopero degli scolari, cita la Costituzione, evoca le leggi razziali del 1938 e dice: «Abbiamo preferito far perdere la scuola ai nostri figli per tre giorni che essere costretti a non mandarceli più. Non riusciamo a portare i figli nell’orario scolastico perché la mattina usciamo prima per andare a lavorare, né possiamo pagare 104 euro al mese per la mensa. Della retta per gli asili nido non parliamo neppure».

Il comune tenta di correre ai ripari, riceve una delegazione di genitori e annuncia modifiche al regolamento. Intanto i bambini rientrano nelle aule, ma non mangiano in mensa. I genitori italiani solidarizzano, nasce l’associazione Uguali doveri che avvia una raccolta fondi di oltre 130 mila euro in pochi giorni. Animatrice dell’associazione è la libraia Michela Sfondrini, ex consigliera comunale di Sinistra ecologia e libertà (Sel): «Con i soldi paghiamo la differenza e ristabiliamo l’equità. Quel regolamento è discriminatorio, e il comune ha adottato la presunzione di malafede per chi non riesce a presentare i certificati richiesti».   

Cosa dicono i big della Lega

A metà ottobre la giunta emana nuove linee guida, che ammettono come valide le dichiarazioni dei consolati che dichiarano improducibili quei certificati. Restano fuori gli stranieri che non riescono a ottenere nemmeno quella dichiarazione. In quel caso, risponde il comune, sarà il dirigente del servizio a valutare. Caso chiuso? Macché. Su quei bambini si gioca una partita più grande. La sindaca non parla più se non attraverso comunicati. Il partito l’ha messa in silenzio stampa dopo che la vicenda è finita sul New York Times, sul Guardian e su Le Figaro. Per lei parlano i big della Lega. Il vicepremier Matteo Salvini: «Il sindaco di Lodi vuole controllare che tutti paghino la mensa dei figli? Fa bene. Basta con i furbetti, se c’è gente che al suo Paese ha case, terreni e soldi, perché dovremmo dare loro dei servizi gratis, mentre gli italiani pagano tutto? La pacchia è finita».

Marco Bussetti, ministro dell’Istruzione: «Il sindaco non ha fatto altro che applicare la legge». Intanto due comuni in Francia e in Germania, gemellati con Lodi, hanno annunciato di voler interrompere i legami, mentre la garante per l’infanzia, Filomena Albano, parla di diritti dei bambini calpestati e il commissario europeo Pierre Moscovici si definisce «scioccato». 

La vicenda finisce in tribunale. La prima sezione del tribunale civile di Milano è chiamata a decidere sul ricorso presentato dal Naga e dall’Asgi, associazioni per i migranti e per gli studi giuridici sull’immigrazione. Il cui avvocato Alberto Guariso è certo della vittoria, cita un decreto del governo Letta del 2013 che, di fatto, assegna il compito di verifica sui certificati Isee solo all’Inps sottraendo le valutazioni sulla documentazione agli enti locali e sostiene che quella di Lodi «è stata una discriminazione collettiva».

Ma la partita non si chiuderà con una sentenza. Ormai i pasti di quei bambini sono un simbolo. I sindaci leghisti plaudono al modello Lodi. La sindaca di Cascina Susanna Ceccardi, nuova icona della Lega, annuncia nei salotti tv di voler fare lo stesso e che «magari quando andavo a scuola io avessi potuto portarmi il panino da casa». Mentre l’infaticabile libraia di Lodi organizza dibattiti con Gad Lerner e Moni Ovadia. Nel mezzo ci sono quei sindaci che quel regolamento lo applicano da anni, soprattutto nella cintura dei comuni a sud di Milano, ma hanno capito che è meglio non farsi notare. Come a Melegnano, a 20 chilometri da Lodi. Dove lo straniero deve presentare i certificati originali e tradotti da un interprete giurato, ma manifestazioni di protesta non ce ne sono. Sarà forse perché il sindaco, qui, è del Partito democratico? 


(Articolo pubblicato nel n° 47 di Panorama in edicola dall'8 novembre 2018 con il titolo "Non è un pasto gratis. Nemmeno per il Pd")

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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