L'antisemitismo della dirigenza palestinese rende la pace impossibile
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L'antisemitismo della dirigenza palestinese rende la pace impossibile

Per Abu Mazen la Shoah è la conseguenza delle "funzioni sociali" degli ebrei nelle banche. Una dimostrazione ulteriore della necessità di una nuova dirigenza per interloquire con credibilità con Israele

"La causa della Shoah? Il comportamento degli ebrei". Niente di meno…
Si toglie la maschera davanti al Consiglio nazionale palestinese, attraverso un’ora e mezzo di discorso presentato come "lezione di storia" e trasmesso alla Tv nazionale, quello che sarebbe considerato il più moderato, aperto e tollerante dei leader palestinesi: l’uomo del dialogo, l’interlocutore di Stati Uniti, Europa e comunità internazionale, investito della responsabilità di governo dell’embrione di Stato palestinese che comprende Cisgiordania e Striscia di Gaza.

A 83 anni (che non sembra essere l’età della saggezza ma della tragica schiettezza) quell’uomo, presidente dell’Autorità palestinese, rispolvera il nom de guerre per il quale era meglio conosciuto anni fa, Abu Mazen, al secolo Mahmoud Abbas. E plasticamente, clamorosamente, ma per molti non sorprendentemente, svela la natura ideologica e irriducibile del contrasto con Israele, un linguaggio e un pensiero "inaccettabili" pure per l’Unione Europea, che tende sempre a usare parole bilanciate ai limiti dell’ipocrisia riguardo al Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese.

Quello di Abu Mazen è un antisemitismo che fa proprie tutte le tesi degli antisemiti di sempre, le stesse che hanno ispirato lo sterminio nazista e preparato la Shoah, per cui vi sono tuttora Paesi, a cominciare dall’Iran, i cui leader non nascondono il desiderio e obiettivo di cancellare Israele dalle mappe geografiche.

Si può mai pensare a un negoziato di pace con chi teorizza la tua distruzione? Evidentemente no.

Attenzione. Abu Mazen non si sarebbe limitato a spiegare le "ragioni" per le quali gli ebrei sarebbero sempre stati odiati. Forte della presunzione di rivolgersi a una platea chiaramente ricettiva, ha declinato una serie di fake news storiche e luoghi comuni dell’immaginario antisemita di ogni tempo, ponendosi automaticamente nel campo di coloro con i quali è impossibile intavolare qualsiasi negoziato per la soluzione del rebus mediorientale.

In particolare, avrebbe negato la relazione tra ebrei e terra di Israele, accusato gli scrittori "ebrei sionisti" di avere imbastito una propria storia infondata dell’Ebraismo e delle origini di Israele. Avrebbe citato le persecuzioni, i pogrom, a cui il popolo ebraico è stato sottoposto periodicamente nella storia, in particolare in Europa, affrettandosi però a edulcorare l’impatto disgustoso della discriminazione criminale chiedendosi perché ciò fosse accaduto. "Loro dicono 'è perché siamo ebrei', ma vi porterò tre ebrei, con tre libri, per i quali l’odio verso gli ebrei non è causato dalla loro identità religiosa, ma dalle loro funzioni sociali".

Ovvero: la "questione ebraica" in Europa dipenderebbe da attività "legate all’usura, all’attività bancaria e simili". E a ulteriore smascheramento del pregiudizio, ecco rispuntare le significative manipolazioni storiche di ogni razzismo: gli ebrei ashkenaziti che abitavano tradizionalmente Europa dell’Est e Germania, vittime della Shoah, "non hanno alcun rapporto con i popoli semiti". Un de profundis, quello di Abu Mazen, a qualsiasi speranza di imbastire una pace possibile con l’attuale leadership palestinese.

Si pensava che il problema fosse con i governanti di Gaza, quelli che hanno scatenato le manifestazioni di queste settimane pianificando gli assalti alla barriera che demarca il "confine" con Israele (considerando la minaccia terroristica, l’esercito israeliano non può permettere alcun tipo di sconfinamento né alcun allentamento dei controlli e della saldatura delle barriere). Adesso, invece, emerge tutto il livore e il pregiudizio antisemita della classe dirigente dell’Autorità palestinese tutta. C’è chi ricorda il Gran Mufti di Gerusalemme degli anni ’40, Amin al-Husseini, carismatico leader palestinese che usava argomenti antisemiti pur di ottenere il sostegno di Hitler.

Proprio in questi giorni c’è gran dibattito sulle uccisioni da parte israeliana di dimostranti palestinesi impegnati nella "Marcia del ritorno". Qualcuno ha definito Israele "criminale". C’è chi parla di "genocidio" dei palestinesi. Quello che sfugge è che Israele combatte per sopravvivere, in una regione nella quale sono più i politici e gli Stati che vorrebbero far sparire gli ebrei e azzerare Israele in quanto tale. Senza concessioni. Senza compromessi.

Solo il fatto di essere (ancora) i più forti, permette agli israeliani di non dover affrontare un altro esodo, subire un nuovo genocidio. Qualsiasi debolezza sarebbe una condanna a morte per Israele. Questo spiega anche i sistemi duri nei confronti dei terroristi e delle loro famiglie. Sistemi grazie ai quali Israele può essere considerato, nonostante la tensione e la guerra sotto-traccia che non si è mai fermata, uno dei Paesi più sicuri al mondo.

Il popolo palestinese non potrà mai vedere conclusa la tragedia di questo mezzo secolo se non saprà dotarsi di una leadership all’altezza delle sfide, pragmatica e politicamente abile, ma soprattutto non razzista. E interessata realmente alla pace, invece che devastata da lotte intestine che spingono verso linguaggi estremi e demagogici, e versata nelle pratiche corruttive più che nella diplomazia.

È cambiato poco, in definitiva, da Al-Husseini ad Arafat e da Arafat ad Abu Mazen.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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