Ius affectionis: una prospettiva per la cittadinanza oltre il sangue ed il suolo
Perché non chiedere a tutti la sottoscrizione e condivisione della Carta dei Valori?
di Guido Salvini (magistrato)
La precipitosa dichiarazione di intenti del Ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge, il primo, si leggerebbe negli atti pubblici se fossimo negli Stati Uniti, di razza non “caucasica”, ha introdotto in pochi giorni l’espressione ius soli nei mezzi di comunicazione e nel linguaggio comune. E’ un principio che viene percepito come progressista in opposizione allo ius sanguinis che evoca superiorità razziali di stampo conservatore e anche oltre.
In realtà non è stato sempre così. L’acquisto della cittadinanza per nascita in un determinato luogo ha accompagnato le grandi colonizzazioni: si recintava la terra diventandone con l’occupazione proprietari e i figli dei nuovi arrivati divenivano automaticamente cittadini della nuova patria.
Così è accaduto negli USA, in Canada, in Australia, in Argentina con grande soddisfazione dei coloni e forse un po’ meno degli abitanti autoctoni. E negli Stati Uniti il principio dello ius soli è sopravissuto sino ad oggi come tradizione culturale fondante un po’ come il diritto di ciascuno a comprarsi un’arma.
Ma, immigrazione a parte, per tutto il Medioevo, lo ius soli è stato è stato il principio assoluto con cui il signore legava gli abitanti alla sua persona : nati o abitanti sulle sue terre e quindi cittadini solo nel senso di essere obbligati a versare tributi e ad andare in guerra per il feudatario, in sintonia con il principio, riguardante non solo i corpi ma anche le anime, “cuius regio, eius religio”.
Solo con la Rivoluzione francese si è fatto strada il valore dello ius sanguinis come fattore di identità personale, preesistente al potere del monarca e quindi principio di libertà individuale : si resta italiano o inglese anche se si nasce e si continua a vivere in Francia e viceversa.
Il principio dello ius sanguinis è degenerato solo in seguito, adottato dalla dottrina nazista e trasformato in veicolo ideologico di superiorità razziale : il nazismo giustificava l’espansionismo del Reich anche con la necessità di recuperare e annettere le terre, quali parte della Cecoslovacchia o della Polonia, ove vivevano forti nuclei di sangue tedesco, sangue che non si poteva modificare nonostante i formali vincoli di cittadinanza con un altro paese.
Questa premessa storica può servire a fare un po’ d’ordine e aiutare comprendere che in un campo così mobile e al tempo stesso oggi così centrale per gli assetti di ogni società le percezioni solo ideologiche possono avere effetti distorsivi. E’ abbastanza evidente comunque, e anche il Ministro dopo le dichiarazioni iniziali ha dovuto a mente fredda correggere il tiro, che lo ius soli è immaginabile solo in terre semivuote investite da forti flussi migratori che stanno facendo sorgere una nuova società: quindi è improponibile in Italia e in qualsiasi paese d’Europa ove non vi sono Stati in formazione ma da secoli società ormai strutturate.
Nello stesso tempo però polemiche e reazioni hanno portato l’attenzione sul tema della cittadinanza, meritevole di un ammodernamento legislativo e di una riflessione culturale anche più ampia. L’Italia come tutti i paesi Europei ha un sistema misto, uno ius sanguinis temperato da spazi per lo ius soli.
In base alla legge del 1992, una legge già vecchia in tempi di mutamenti così rapidi, allo straniero non comunitario che risiede legalmente in Italia da almeno 10 anni può essere concessa, si badi bene “può”, la cittadinanza italiana. Si diventa inoltre cittadini italiani per matrimonio,in questo caso automaticamente, tre anni dopo le nozze con un italiano.
Infine i figli degli stranieri, e di questo molto si è discusso, godono di uno ius soli molto differito. Infatti il figlio di genitori stranieri diventa cittadino italiano, se lo richiede, solo al compimento del 18º anno di età e solo se ha risieduto legalmente in Italia senza interruzioni sino a quel momento
Nel dibattito che si è aperto la cittadinanza per matrimonio rileva poco poiché si traduce in una somma di scelte singole che danno luogo a famiglie miste. Quella sensibile è la situazione di nuclei familiari compatti, espressione di una immigrazione numericamente importante, portatori in linea generale della loro cultura, che, avendo figli in Italia possono “produrre” nuovi cittadini italiani.
La legislazione italiana attuale è di certo tra le più restrittive in Europa. Solo la Svizzera ha una legislazione più severa mentre in alcuni paesi importanti, come la Francia e la Gran Bretagna, l’acquisto della cittadinanza sulla base di partenza dello ius soli è più facile, favorito dal fatto che si tratta di paesi eredi di grandi imperi coloniali ragione per cui molti degli aspiranti avevano già legami culturali con il paese di immigrazione di cui erano o erano stati di fatto semi-cittadini.
Il numero degli stranieri, soprattutto bambini e minori, che ottengono la cittadinanza italiana, dopo molti ostacoli anche frutto della burocrazia che spesso ragiona solo enfatizzando i profili di “sicurezza”, è troppo basso rispetto alle situazioni che concretamente lo meritano e forse lo impongono. Anche la cittadinanza agli adulti dopo 10 anni di residenza legale non è un diritto ma una “concessione” e i provvedimenti del Ministero dell’Interno di concessione o di diniego, ampiamente discrezionali si fondano spesso, dopo lunghe attese, su elementi generici, non definiti per legge e valutazioni di stile.
Serve allora un “percorso”, per usare un’espressione abusata e dal tono un po’ catechistico, più breve ma anche meglio definito. Si può pensare, per i figli di genitori stranieri, alla possibilità di chiedere la cittadinanza alla conclusione del ciclo o di parte del ciclo della scuola dell’obbligo, più o meno come avviene in Francia, arretrando quindi di qualche anno il diritto a divenire italiani.
Si potrebbe mettere mano per tutti ad un percorso formativo obbligatorio di adesione ai valori fondanti dello Stato in cui si è nati o in cui si vive usando come base la Carta dei Valori, della Cittadinanza e della Integrazione promossa dal Ministero dell’Interno dopo una serie di consultazioni tra esperti ed esponenti di varie comunità e che è rimasta quasi inattiva dal 2007 ad oggi. Si tratta di un testo, non con vera forza di legge ma comunque pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, che espone in modo semplice quali sono i diritti degli stranieri in Italia, quali i loro doveri e i valori della società in cui hanno deciso di vivere e quali anche i doveri dei cittadini nei loro confronti.
La Carta dei Valori, lasciando da parte qualche critica concettuale, è un testo semplice e chiaro, per uno straniero, cui essenzialmente è diretta, molto più chiaro della Costituzione, per non parlare dei codici.
Parla dei diritti fondamentali della persona senza distinzione di etnia o religione e al tempo stesso del rispetto dei valori su cui poggia la società e poggiano i diritti degli altri, della pari dignità dell’uomo e della donna dentro e fuori la famiglia, del diritto ad un compenso adeguato per il lavoro svolto, alla previdenza e all’aiuto in caso di malattia e infortunio, dello svolgimento del lavoro in condizioni di sicurezza, della facoltà di rivolgersi ad organizzazioni sindacali per il rispetto di questi diritti.
Parla del diritto di chiunque, cittadino o immigrato, ad essere curato presso strutture pubbliche della speciale protezione della maternità e dell’infanzia, del diritto e dovere dei ragazzi di frequentare la scuola dell’obbligo, della neutralità dell’insegnamento e nello stesso tempo del suo adeguamento al pluralismo della società, della promozione tramite esso della conoscenza e integrazione tra tutti i ragazzi senza discriminazioni.
Ricorda che l’Italia è un paese laico dinanzi al quale ogni confessione è ugualmente libera, che riconosce quindi a ciascuno la piena libertà religiosa, compresa quella di non praticarne alcuna o di cambiare religione e che proibisce l’offesa verso il sentimento religioso di chiunque.
Ricorda in alcuni significativi passaggi che l’Italia proibisce ogni forma di coercizione all’interno della famiglia, proibisce la poligamia come contraria ai diritti della donna e ogni mutilazione del corpo non dovuta ad esigenze mediche e considera “non accettabile” il velo integrale come ostacolo a entrare in rapporto con gli altri.
La strada verso cittadinanza potrebbe passare attraverso la frequenza a corsi basati sulla Carta dei Valori, organizzati dagli Enti pubblici territoriali, in cui gli stranieri, uomini e donne insieme, e questo non è un dettaglio, possano essere informati dei principi fondamentali che dovranno condividere per essere accolti ed entrare a far parte della nostra società, in cui si possa discutere, rispondere a ogni dubbio e comprendere il livello di adesione di ciascuno a questi principi.
La sottoscrizione individuale della Carta dei Valori dovrebbe essere condizione per la richiesta di cittadinanza, un’adesione consapevole ed individuale poiché la Carta è già stata sì approvata nel 2007 dai rappresentanti di molte comunità ma tra i quali si nascondono, forse, non pochi simulatori.
È invece meglio lasciare un po’ da parte il mito della conoscenza della lingua italiana tanto caro ad alcuni nostri politici ignoranti. Un cittadino del Sud-america, che non a caso si chiama più esattamente America latina è in grado di imparare l’italiano in poche settimane, un cittadino slavo in pochi mesi e così un arabo perché, anche se non sembra., la struttura di questi gruppi di lingue è la medesima. Tutti noi invece conosciamo filippini o cingalesi e anche cinesi, perfettamente rispettosi dei nostri valori essenziali, che anche dopo anni di permanenza riescono a stento a usare qualche parola di italiano poiché la struttura organizzativa e semantica della loro lingua di origine non ha alcuna base in comune con la nostra. E ciò anche se parlano l’inglese, imparato a scuola da piccoli, magari meglio di tanti nostri parlamentari.
La strada da seguire e le riforme da fare possono essere vicine a quelle indicate, quella di una verifica dell’affectio e non dell’acquisizione di dati solo formali
Aspirare ad una nuova cittadinanza non significa infatti solo aspettarsi vantaggi personali per sé o per propria famiglia o simulare la confidenza con un mondo che in realtà rimane estraneo.
Significa sviluppare un minimo, chiamiamola appunto così, di affectio per i principi culturali e le regole di vita del paese in cui si è scelto di vivere, mantenendo le proprie diversità sono nelle forme e nei limiti in cui sono riconosciute a qualsiasi altro cittadino, senza pretendere una diversità che oltrepassa gli accordi che valgono per tutti.
Basare il percorso verso la cittadinanza sullo ius affectionis quindi, non qualcosa a metà strada tra lo ius soli e lo ius sanguinis ma qualcosa di qualitativamente diverso che li oltrepassa entrambi.
Il problema però non sono i bambini o i minori ma i loro genitori e i capi delle comunità.
E qui bisogna uscire dall’ipocrisia e avere la coerenza di rendere manifesto qual è il vero freno, e un freno non immaginario, ad un’apertura a nuovi diritti di cittadinanza. Gli aspiranti italiani non sono solo tanti singoli che cercano un percorso di inserimento individuale. Se fosse così, anche se fossero in numero molto alto, non costituirebbero un problema. Ci si trova invece di fronte a gruppi etnico- religiosi con stretti legami coltivati anche nel paese di adozione, in genere grazie al controllo operato dai capi religiosi, potenzialmente portatori di un progetto trasformativo a medio- lungo termine del sistema di valori e forse anche del sistema legale del paese di cui intendono diventare cittadini.
Il riferimento è ovviamente ai blocchi etnici di fede musulmana. Solo per far un esempio un immigrato slavo, se delinque, tra i molti che non lo fanno, non intende certo cambiare la nostra società ma solo approfittare in modo parassitario delle sue ricchezze.
Qualcosa di simile, in termini di stili di vita e di spazi, vale per il giovane appartenente ad una banda, le“pandillas sud-americane dedita a rapinette ed intimidazioni per strada. Sono comportamenti odiosi ma non cambiano l’orizzonte della nostra società. Come non lo cambia, ma è materia per la Guardia di Finanza, il negoziante cinese che non rilascia le ricevute ed evade il fisco.
Ma il progetto delle comunità che si trasferiscono nelle terre non dell’Islam, o meglio non ancora dell’Islam, può essere ontologicamente diverso.
In genere quando ci si riferisce in modo critico all’Islam tutti pensano alla dominazione sulle donne ma questo aspetto, pur nella sua enormità, è un prodotto secondario.
Entrare in contatto con l’essenza della fede musulmana è un’operazione che, per quieto vivere, si risolve quasi sempre in autocensura.
Per quanto si possa dire in poche righe, ma l’Islam a differenza del cristianesimo e del buddismo non è una religione molto complessa anche perché chiede solo di obbedire, il Corano è la rivelazione definitiva, che ingloba e rende superate le precedenti, tanto che vi appaiono, anche se detronizzati, Gesù e Maria. Non è ispirato ma scritto direttamente da Allah, il Dio- padrone e non Dio - padre ed amico dei cristiani, Allah che si rivolge all’umanità nella sua interezza e non a alla coscienza dei singoli per manifestare, senza alcun dialogo tra Dio e l’uomo, la legge unica cui sottomettersi: l’Islam appunto.
Se così è scritto le altre fedi sono un residuo inutile e dannoso, destinate ad esaurirsi e a perire. Soprattutto nessuna terra acquisita all’Islam, chiamata Dar el Gharb, terra di conquista, una volta diventata tale può regredire al passato. L’Islam può solo estendersi fisicamente e ciò vale anche per i singoli uomini: una volta convertito nessuno può lasciare la fede e chi cerca di farlo deve essere eliminato come empio apostata.
La punizione spietata dell’apostasia e con essa le odiose leggi contro la blasfemia sono l’heart of darkness dell’Islam. Non è certo un caso che la stessa Carta dei Valori senta il bisogno di menzionare il diritto a “cambiare religione” che non compare in nessuna altra norma. Con questo bisogna misurarsi e ci si trova di fronte ad un tratto culturale specifico. Anche molti fedeli indù, ad esempio, sono fondamentalisti ma almeno l’induismo non è interessato alla conversione e all’espansione in quanto identifica sé stesso solo come religione nazionale indiana.
Questi sono i cardini da cui discende tutto il resto, potere sulle donne compreso, e, espulsa nei secoli ogni riflessione di stampo illuminista, su di essi quasi tutti i musulmani concordano, non solo i fondamentalisti ma anche molti “moderati”, salvo le diversità di vedute in termini di tempi, strategie e mezzi.
Se questo è il cuore profondo dell’Islam non è facile inglobare blocchi compatti di “nuovi cittadini” convinti che ogni legge proviene da Dio e non dal popolo cioè non da quella che noi chiamiamo democrazia.
Quale garanzia vi è allora che, raggiunta una soglia critica le comunità musulmane legittimate in Italia, controllate non da rappresentanti “civili” ma sempre da capi religiosi, non intendano coltivare il progetto per loro essenziale di mutamento della cornice dei valori, per tutti o almeno nel senso di creare leggi e giurisdizione separate? Praticamente nessuna.
Serve dunque in tema di cittadinanza e di immigrazione, un approccio non solo giuridico ma anche culturale, libero da ogni gentile ipocrisia, che veda le cose così come sono e ragioni a lungo termine.
Si tratta di rimanere aperti ad un confronto non ostile, l’Italia non ha “nemici”, ma senza infingimenti che aiuti anche ad aprire una riflessione interna alla comunità musulmane : aiutare a chiedersi “siamo disposti a no ad accettare interamente le leggi civili ?”
La cittadinanza è la condivisione reale di un insieme di valori ( in Italia, sia chiaro, quelli della Costituzione e non o non solo del cristianesimo ) ma non ha più la sacralità di un tempo. Tanto è vero che alla cittadinanza pura e semplice di un paese, a seguito di scelte legislative fatte proprie anche dall’Italia, può accompagnarsi la doppia cittadinanza ove i due sistemi siano omogenei e alla cittadinanza italiana si aggiunge la cittadinanza europea con tutti i diritti che ne conseguono.
Si può riflettere allora, sia per gli adulti sia per i minori stranieri, una volta condivisa con consapevolezza la Carta dei Valori, ad un diritto di residenza permanente o ad un periodo di pre-cittadinanza con ampio godimento di diritti, trasferibile ai figli, come proposto l’anno scorso anche da uno studioso come Giovanni Sartori. Ma uno status revocabile qualora in un arco di tempo avvengano comportamenti che dimostrino che l’affectio verso i valori della Costituzione non c’era o era stato solo simulato.
Una residenza permanente, che eviterebbe l’impervio percorso dei rinnovi e da cui sarebbe escluso solo il diritto di voto alle elezioni politiche ma con il riconoscimento invece del diritto a partecipare alle elezioni amministrative ove possono esprimersi le esigenze più strettamente legate all’abitazione, alla salute e al territorio.
Uno status comunque non definitivo, a differenza della cittadinanza pura e semplice e che per tale ragione responsabilizza. Revocabile non solo quando chi ne usufruisce commetta reati gravi e non occasionali, ad esempio uno spaccio di droga in forma associativa, ma quando assuma comportamenti incompatibili con i valori cui ha finto di aderire. Revocabile a chi segrega la moglie in casa, non manda i figli a scuola, attua la poligamia, impedisce alla figlia di convertirsi ad un’altra religione o di frequentare chi vuole, è attivo in luoghi ove si incita all’odio e al razzismo religioso.
In tali casi infatti lo ius affectionis è da considerarsi venuto o è stato dissimulato ma in realtà non vi è mai stato.
La forza di questa proposta, una residenza permanente basata sullo ius affectionis è quella di essere razionale, accettabile in potenza da tutti e di non compromettere niente: dà infatti il tempo di vedere se funziona e come funziona.
Dopo il pur incauto sasso nello stagno gettato dal nuovo Ministro si aprirà di certo un periodo di scelte, vicine o meno a questa a proposta e forse anche molto diverse tra loro.
L’importante è che ciascuno avanzi la propria soluzione partendo da ciò che la realtà offre e non da ciò che si immagina o si teme che sia.
Con un po’ di razionalità, senza pregiudizi mentali, quasi sempre speculari e senza arrecare altre lesioni ad equilibri istituzionali e sociali che sono già una casa pericolante.