Viaggio nelle prigioni delle streghe e degli sciamani
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Viaggio nelle prigioni delle streghe e degli sciamani

Il reportage all'interno di un carcere nel cuore dell'Africa - Nessuno tocchi Caino -

Le strade di Bangui si presentano a macchia di leopardo, con piccole chiazze di asfalto nero che un tempo le ha ricoperte e grandi buche di terra rossa africana che col tempo ha preso il sopravvento. Siamo in Centrafrica, nel cuore più povero e malato dell’Africa, al centro esatto, geografico e simbolico di un continente ricco di natura e immiserito da un secolo di sfruttamento coloniale seguito da sterminio per fame e per guerra.

La strada che conduce a Bimbo, quartiere popolare alla periferia di Bangui, brulica di gente apparentemente impegnata in mille attività. Le baracche di legno e lamiera ai lati della strada sono misere dimore ma anche punti vendita di rari prodotti agricoli. Ci sono giovani donne con il figlioletto fasciato sulle spalle e, in perfetto equilibrio sulla testa, il loro piccolo negozio ambulante di frutta e verdura, merceria o panetteria. Ragazzi vanno e vengono con enormi tronchi d’albero assicurati con ingegno di peso e contrappeso su piccoli trabiccoli che non paiono soffrire il carico.

Il carcere femminile è nel cuore di Bimbo ed è in aperto contrasto con la qualità della vita circostante. E’ una delle rare costruzioni in muratura del quartiere, nella quale 31 donne beneficiano di assistenza sanitaria e un corso di alfabetizzazione. Viene loro insegnato a fare il sapone che producono anche per le necessità della prigione e che gli assicura anche un piccolo reddito per quando saranno fuori. “Non siamo del tutto private dei nostri diritti… solo il diritto di andare e venire è regolato, altrimenti non mi sentirei in prigione”, ha detto una detenuta. Sono ospitate in tre stanzoni a seconda del reato di cui sono imputate, e il reato rende anche una differenza di ordine sociale. La prima stanza è assegnata alle detenute per reati contro la pubblica amministrazione ed è quella più dignitosa, “arredata” com’è di materassi, lenzuola, cuscini e zanzariere. Le sei donne che la abitano indossano vestiti tradizionali e veli colorati e hanno con sé tre bambine piccole, che possono accudire fino ai cinque anni di età.

La stanza più affollata è quella delle “streghe”, 14 donne vestite più modestamente che incontriamo all’aperto, sedute sotto una tettoia che fa anche da cucina. Sono state portate in carcere per un “reato” che neanche il codice penale riesce a definire e che fino a qualche anno fa prevedeva anche la pena di morte. Oggi la pena in carcere per stregoneria va da cinque a dieci anni, ma fuori del carcere la punizione può essere molto più severa.

Negli ultimi due anni e mezzo, oltre 500 persone sospettate di praticare la stregoneria sono state vittima della giustizia privata, non solo in villaggi remoti della foresta, ma anche nei quartieri popolari di Bangui, dove le antiche credenze sono ancora vive ed è davvero pericoloso mettere in discussione pubblicamente l’esistenza di magie, incantesimi, amuleti e altre pratiche occulte.

Nella rivista centrafricana di antropologia, Emile Ndiapou, antropologo, ha scritto: “In Centrafrica, una strega è una persona che ha due stomaci, uno per digerire il cibo e l’altro per offrire un ricovero ad alcuni animali: un gufo, un gatto, una rana, un gallo, anche un serpente. Si tratta, il più delle volte, di animali che emettono suoni ad abitare lo stomaco dei maghi. Capirete perché il miagolio del gatto, il grido della civetta, il gracidare del rospo, in piena notte fanno paura, perché annunciano il passaggio o l’arrivo di un mago che sta andando a fare del male a un abitante della casa o del quartiere.”

La polizia spesso arriva troppo tardi per salvare dalla giustizia sommaria “streghe” e “maghi” considerati responsabili di morti “sospette”.

Il 15 agosto un uomo sulla sessantina, accusato di aver stregato una ragazza, è stato lapidato e bruciato a Danga nella sotto-prefettura di Grimari. La sua casa e quella del presunto complice, che per fortuna è ancora in carcere Bambari, sono state bruciate. Dopo l’incendio delle case, i manifestanti sono andati a distruggere campi di manioca e di banane e un vivaio, perché la vittima esercitava anche l’itticoltura.

Il 19 settembre due donne sospettate di stregoneria sono state uccise, bruciate e sepolte in una fossa comune nel villaggio di Kapou, a 60 chilometri da Bangui.

Il 10 ottobre una donna di 60 anni, sospettata dagli abitanti di Botoko di aver trasmesso la stregoneria a una ragazza, è stata costretta a rimanere al suo capezzale fino alla guarigione. In caso contrario, sarebbe stata uccisa. Fortunatamente, la donna è stata salvata ed è attualmente protetta da un uomo di Chiesa per sfuggire alla “giustizia” degli abitanti del villaggio.

La pena di morte “legale” per stregoneria è stata abolita nel 2010 e, con Marco Perduca ed Elisabetta Zamparutti, siamo venuti in Centrafrica per chiederne l’abolizione completa, dopo oltre trent’anni di moratoria di fatto delle esecuzioni. Una settimana prima del nostro arrivo, il governo ha approvato un disegno di legge abolizionista che attende ora l’esame del Parlamento. Incontrandoci, il Primo Ministro Faustin-Archange Touadera assicura il voto favorevole della Repubblica Centrafricana sulla Risoluzione pro-moratoria in discussione al Palazzo di Vetro e la ratifica del Secondo Protocollo al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che mira all’abolizione della pena di morte.

Il nostro viaggio continua nel carcere maschile di Ngaragba, nel cuore amministrativo e residenziale di Bangui. Arriviamo all’ora del rancio, e l’odore è insopportabile, l’aria irrespirabile. I detenuti attendono con la ciotola in mano in fila davanti a due pentoloni di polenta e foglie di tapioca appena usciti da una cucina all’aperto alimentata a legna. Il cibo è insufficiente e i detenuti si affidano al buon cuore dell’addetto al razionamento, un allegro ragazzo cinese detenuto per l’omicidio di un connazionale. E’ previsto un pasto al giorno e chi può compensa con alimenti supplementari portati dalla famiglia e cotti su piccoli fuochi allestiti nel cortile della sezione.

Come le altre 37 prigioni del Paese, Ngaragba è stata costruita durante l’era coloniale e in mezzo secolo non deve aver visto mai una seria opera di manutenzione né una mano di pittura.

Le sezioni sono cinque e anche qui, come a Bimbo, sono suddivise, in teoria, per tipi di reato, in pratica, per grado e origine sociali. Non hanno un numero, ma un nome che le contraddistingue e, a scanso di equivoci, in alcuni casi anche un’immagine simbolica. Sicché, la prima è ironicamente denominata “Casa Bianca”, nel senso di quella americana, una sezione di massima sicurezza dove sono rinchiusi quelli più ricchi, a giudicare anche dagli abiti lindi che indossano, dai giacigli rialzati dal pavimento e protetti da veli anti zanzare, dai tappeti persiani su cui dormono. La seconda sezione, “Golo-Waka”, è dedicata a ladri di polli e consumatori di hashish come chiaramente indica il disegno di un rasta con lo spinello che campeggia sul portone.

La terza sezione, denominata “D.D.P.”, ha la porta di ingresso sbarrata, non sappiamo se per la mancanza o per la incolumità fisica dei detenuti per reati militari e contro la pubblica amministrazione. La quarta è chiamata “Couloir” e il disegno di una strega sulla scopa non lascia dubbi sul fatto che lì sono rinchiusi presunti maghi, guaritori falliti e ciarlatani di ogni tipo. E’ la sezione carceraria più triste e fatiscente che abbia mai visto in vita mia. Salvo poche eccezioni, i detenuti vestono abiti più sporchi e lisi e dormono direttamente sul pavimento; le celle sono le più buie della prigione; il gabinetto è un piccolo tugurio immerso nella sporcizia, senza acqua e senza cesso. Sul muro del cortile interno qualcuno, non certo un detenuto, ha tracciato con un celeste pastello la scritta “Gesù è la salvezza” e ha raffigurato la scena di un guardiano che picchia con un bastone le piante dei piedi di un detenuto con l’inquietante didascalia “cinque colpi ben assestati”.

Nell’ultima sezione, col nome “Iraq” e il teschio stampati sopra l’ingresso, sono rinchiusi i prigionieri accusati di reati sangue.

In questa situazione al limite dell’umanità, languono 328 detenuti, di cui 228 in attesa di giudizio; molti di loro attendono da mesi di comparire davanti a un giudice, pochi hanno un avvocato. Quelli con malattie infettive, dalla scabbia alla malaria, non sono separati dagli altri detenuti. C’è un solo infermiere che provvede a quelli, quasi tutti, che hanno bisogno di cure mediche, in un’infermeria “attrezzata” solo di un lettino, una bilancia, un paio di forbici, un rotolo di cerotto e due flaconi di disinfettante.

La sicurezza della prigione è affidata a 20 soldati dell’esercito, una parte dei quali dormono dentro, gli altri fuori accampati in una tenda.

Il problema del sovraffollamento è stato in parte risolto il 2 agosto scorso quando una folla di manifestanti ha dato l’assalto al carcere e liberato tutti i 552 detenuti stipati allora nella prigione. A luglio il governo aveva lanciato una chiamata al reclutamento nell’esercito a cui avevano risposto oltre 10.000 candidati. Dopo l’annuncio che ne erano stati selezionati solo 650 come previsto, migliaia di giovani scontenti sono scesi in piazza, hanno invaso le arterie principali della capitale, bruciando pneumatici e gridando all’ingiustizia. Dopo aver distrutto il busto del Presidente François Bozizé, eretto tra i cinque ex capi di Stato nel Giardino del Cinquantesimo Anniversario dell’Indipendenza, si sono recati al carcere, hanno sfondato il portone di ingresso e aperto le celle. Dei 552 detenuti evasi, 76 hanno scelto di tornare volontariamente a Ngaragba nel giro di pochi giorni. Tra coloro che hanno fatto ritorno, alcuni erano già stati condannati, come i soldati e gli alti ufficiali processati da un tribunale militare, altri sono ancora in attesa di giudizio, come Francisco Wilibona, uno degli evasi per qualche giorno. “Sono tornato perché da quando sono stato arrestato nel luglio 2010 non sono ancora stato ascoltato da un giudice. Voglio comprendere perché mi hanno messo in prigione.”

“Questi detenuti che sono tornati da soli hanno dimostrato un buon senso civico”, ha commentato Léonard Mbélé, sovrintendente della prigione di Ngaragba che ci accompagna nel corso della visita.

Fatti i conti, dopo un mese, oltre 300 detenuti che si erano dati alla macchia, chi per qualche giorno, chi per qualche settimana, sono ritornati volontariamente a Ngaragba, ben sapendo l’inferno che li avrebbe attesi. Al di là della pena di morte tramite esecuzione che di fatto in Centrafrica non c’è più e che presto verrà abolita anche di diritto, il Governo da un lato, la comunità internazionale dall’altro, hanno ora il compito di evitare che l’esecuzione della pena si risolva di fatto nella morte, ponendo fine, oltre che alla caccia alle streghe, alla condizione disumana e degradante delle prigioni del Paese.

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Sergio D'Elia