Damasco, un'altra Sarajevo
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Damasco, un'altra Sarajevo

Una città - un Paese - in impasse, senza speranze e senza futuro, in cui il modo di vivere sta inesorabilmente cambiando i suoi connotati

E a Damasco, come in tutte le grandi città avviluppate giorno dopo giorno in una guerra civile, un conflitto a regime, crudele, costante, che lavora nel profondo delle coscienze, sta cambiando impercettibilmente (ma non così inavvertitamente) il modo di vivere. Di pensare. Il cervello della gente. Sta mutando la percezione della vita, si sta trasformando la cadenza, il ritmo, l’orizzonte della speranza.

I siriani non guardano più a un futuro lontano, non fanno più progetti, non delineano strategie di crescita sulle attitudini proprie e dei figli. Puntano alla sopravvivenza. Si ritagliano oasi di pace in un tessuto sempre più deteriorato. I reportage dalla Siria (e dalla capitale) parlano di questo, di una trasformazione che è tipica di tutte le guerre che durano a lungo (più di un anno e mezzo ormai da quelle parti), che non accennano a finire e per le quali, anzi, sempre più si prevede uno stallo che nessuno sa come sbloccare. Nei discorsi dei residenti che si ritrovano a vagare in una città che non è più quella in cui sono nati e cresciuti, sempre può si evoca un paragone terribile. Damasco come Sarajevo.

Possibile? Possibile.

Damasco, per chi la conosce, era una bellissima città storicamente votata alla coesistenza tra etnie diverse, con un’antica tradizione di tolleranza nei confronti di una estesa e radicata comunità ebraica, in un mosaico di etnie e religioni, minoranze dentro le minoranze, che pacificamente (seppure sotto un regime) hanno prosperato sullo sfondo di una grande storia e sul set di sontuosi capolavori artistici che vivevano di vita immortale, come le moschee “invase” dai mercati. E nell’interno del Paese, perle nel “deserto” come le rovine di Palmyra o i tanti castelli. E poi una struttura borghese e burocratica funzionante, e una comunità di stranieri integrata nella vita di tutti i giorni. Ora non più.

Damasco non è sotto assedio com’era Sarajevo, ma l’obiettivo dei ribelli è quello di stringere attorno alla capitale un anello che nel tempo possa strangolare i sopravvissuti del regime, la famiglia e i famigli di Bashar el-Assad. In città la violenza dilaga. Le cronache parlano di kamikaze, sparatorie e rapimenti.

Sull’International Herald Tribune è comparso un reportage di Janine Di Giovanni che racconta di una ragazza che viveva con la famiglia a Mezze, la Beverly Hills di Damasco, rapita, abusata e torturata prima d’essere riconsegnata ai suoi per 395 mila dollari. E se prima, nei fine settimana, la gente usciva a fumare le pipe d’acqua in strada, o a guardare le partite di calcio sui megaschermi, o far visita agli amici o fare la gita “fuori porta”, adesso si rintana nelle case, al sicuro (relativamente).

Le sanzioni hanno prodotto come unico risultato quello di far alzare i prezzi anche dei generi di prima necessità. In città si moltiplicano i posti di blocco, dietro l’angolo c’è sempre l’insidia di un attacco, uno scontro. I quartieri vivono di vita propria, e cercano di difendersi. Le comunità che prima convivevano si guardano con una diffidenza che non c’era mai stata, prima.

Le famiglie stesse sono attraversate da scelte diverse, pro o contro Assad (una costante, nei dieci anni di guerre jugoslave). I siriani si paragonano sempre di più alla Bosnia. E anche per la Siria, come per la ex Jugoslavia, si parla invano di intervento, di corridoi umanitari, di sanzioni e di missioni diplomatiche. La realtà è che il mondo sta a guardare, paralizzato da interessi divergenti dei protagonisti della politica internazionale. La Siria come la Bosnia. Ma nel cuore del Medio Oriente. Aspettando la battaglia finale e il dopoguerra che non promette nulla di buono. L’odio attraversa le famiglie e separa le comunità. Spezza i vincoli di amicizia.

Questo sta succedendo nell’indifferenza di tutti noi, a cui resta il ricordo malinconico del variopinto suk e delle moschee mozzafiato, dei ristoranti girevoli che guardano le colline illuminate della pacifica Damasco di una volta. E un’infantile desiderio che il tempo torni indietro, per il bene di tutti.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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