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Putin si prende il Donbass ma apre ai negoziati di pace

Cosa c'è nelle affermazioni del presidente russo, qual è l'origine dell'annessione e perché la mano tesa a Kiev rischia di arrivare troppo tardi

Vladimir Putin pensa quel che dice, dice quel che farà e fa quel che ha detto. È l’unica vera e consolidata certezza della sua politica e della «sua» guerra. Aveva detto che avrebbe annesso quei territori – Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson – e lo ha fatto. Citando l’articolo 1 della Carta Onu sull’autodeterminazione dei popoli, parlando di «genocidio del Donbass» e riproponendo la solita retorica anti-occidentale, ha però rivelato una grande debolezza: è pronto a finirla qui, e fa appello all’Ucraina affinché si sieda al tavolo negoziale. Probabilmente è consapevole dei limiti della sua strategia e della forza militare dispiegata (come vedremo più avanti, è in corso una nuova controffensiva), e ha dovuto fare un bagno di realtà.

In ogni caso, questa mano tesa arriva troppo tardi, cioè dopo aver disegnato con il sangue la «Nuova Russia», che ha peraltro il grave difetto di esistere solo sulla carta. «Al passato non si torna» ha detto, perché «questi sono nostri cittadini per sempre». Per quanto farsesco e per quanto condannato fermamente dall’Onu (stasera vedremo se vi saranno le solite eccezioni, vedi la Cina), il riconoscimento delle zone occupate è solo l’ultimo capitolo di un lungo percorso volto a vampirizzare l’Ucraina e ridurla all’ennesimo territorio satellite della Federazione. Tutto è collegato.

Un progetto che viene da lontano, almeno dal 2004, quando l’esito delle elezioni presidenziali ucraine del 2004 vide il candidato – diremo per semplificare, filorusso – Viktor Yanukovich, e – sempre semplificando – quello filoeuropeo Viktor Yushenko, praticamente appaiati. Il ballottaggio di fine novembre sembrò assegnare la vittoria al candidato di Mosca. Ma l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) denunciò brogli e illegalità, scatenando dure proteste di piazza che presero il nome di «rivoluzione arancione», in ragione del colore delle magliette e sciarpe dei manifestanti. «Yanukovich è corrotto» gridava la folla.

Usa e Ue s’unirono al coro e il Parlamento ucraino sotto pressione approvò una mozione di sfiducia del governo, che portò a nuove elezioni. Stavolta vinse l’europeista Yushenko, con il 51% dei voti a favore. Ma Vladimir Putin non gradì l’intromissione occidentale e lavorò duramente affinché il suo protetto Yanukovich ottenesse almeno la maggioranza in parlamento. Cosa che avvenne due anni più tardi, nel 2006, quando in ragione di ciò fu nominato premier. Per poi diventare presidente nel 2010. Intanto, Yushenko nel 2008 si era recato al vertice Nato di Bucarest per discutere l’adesione di Ucraina e Georgia all’Alleanza atlantica.

Alle origini delle annessioni

Fu precisamente in quell’occasione che Putin decise di porre rimedio all’insubordinazione del «suo satellite», che aveva preso una sbandata per l’Europa e rischiava di contagiare altri Paesi con quest’idea pericolosa di legarsi militarmente all’Occidente, senza contare l’inaccettabile smacco di vedere la Nato piantare le tende nel giardino di casa.

Avrebbe forse invaso l’Ucraina ancor prima, se a Bucarest la Russia non avesse trovato una sponda inaspettata in Angela Merkel, visto che la Germania ostacolò il processo di ingresso nella Nato di Ucraina e Georgia in nome della «prudenza». Come ricorda lo stesso Yushenko, «già poche settimane dopo il vertice, Putin cominciò a dire che l’Ucraina era uno Stato fasullo. E dopo tre mesi che accadde? La Russia invase la Georgia. Io dissi: indovinate chi sarà il prossimo…».

Mosca in pochi giorni vinse la guerra e strappò ai georgiani l’Ossezia del Sud, ma non fino al punto da dichiararla territorio russo. Un errore strategico di cui Putin si è pentito più volte. Così oggi l’Ossezia resta una regione depressa e contesa, il cui territorio è indipendente ma rivendicato dalla Georgia. La stessa fine che rischiano di fare anche le nuove entità del Donbass.

Nord Stream: inizio e fine di un sogno

Intanto, a guerra in corso la Russia aveva inaugurato il progetto del gasdotto Nord Stream. Un modo assai efficace per legare sempre più Mosca a Berlino e per ripagare la cancelliera del favore fattogli durante il vertice di Bucarest. Tuttavia, anche se parla un ottimo russo Angela Merkel non doveva aver compreso bene le reali mire di Putin. Il presidente meditava già nuove annessioni, mentre puntava ad allontanare la Germania dall’Europa e l’Europa dagli Stati Uniti, per avere campo libero.

Nel 2010 il primo vero successo: il suo pupillo Yanukovich diventa infine presidente dell’Ucraina, e Vladimir Putin può tirare un sospiro di sollievo, mentre va completando il grandioso progetto del Nord Stream 1. Tutto crolla solo quattro anni dopo, quando Euromaidan, un movimento ancora più politicizzato e violento degli «arancioni» costringe Yanukovich alla fuga e l’Ucraina si rende davvero indipendente da Mosca. In risposta, il leader russo invade la Crimea e il Donbass, mentre inizia i lavori per il Nord Stream 2.

Tutti sappiamo come andrà a finire. La fuga di Yanukovich dai palazzi del potere ucraini è datata 22 febbraio 2014. L’inizio dell’invasione dell’Ucraina è il 24 febbraio 2022, esattamente otto anni dopo (sarebbe iniziata il 22, ma Mosca ha dovuto ritardare per problemi tecnico-logistici, preludio di quella campagna disastrosa intorno a Kiev). Dunque, Putin pensa quel che dice, dice quel che farà e fa quel che ha detto. Così vale per il nucleare, temono oggi. E così è valso intanto per il Nord Stream: se fosse provato che è opera dei russi, sarebbe il segnale che Putin ha intrapreso una strada senza ritorno di totale collisione con l’Europa. Anche perché le cose in Ucraina non vanno bene.

La situazione sul campo

Dopo la ritirata dalla regione di Kiev a marzo, dopo la sconfitta di Kharkiv a maggio, e dopo l’efficace controffensiva a Est di agosto, i margini di vittoria per Mosca sembrano oggi ridursi al lumicino. Vero è che al Sud gli ucraini faticano molto ad avanzare. Obiettivo della nuova controffensiva è riconquistare proprio Kherson, appena dichiarata da Mosca territorio russo, per poi puntare sulla Crimea. Ma la strada è lunga e irta di pericoli.

Anche se la spinta a Sud degli ucraini (lungo la direttrice da Kharkiv a Donetsk) è stata meno pubblicizzata rispetto alla precedente controffensiva, fonti sul campo ritengono che che questa nuova operazione militare possa essere altrettanto decisiva: «Villaggio dopo villaggio strappati via dalle forze russe, emergono armature strappate e arrugginite mescolate con carri armati ancora fumanti, a costeggiare le strade di campagna. La portata della potenza di fuoco impiegata da entrambe le parti, e la precisione delle nuove armi fornite dall’Occidente in Ucraina, è chiara» affermano i reporter indipendenti che si trovano sul fronte.

Dopo quella per Svyatogorsk, è iniziata la battaglia per Lyman: un avamposto strategico a metà strada tra le città chiave di Kramatorsk e Severodonetsk. Conquistare questo snodo ferroviario porterebbe gli ucraini nel cuore dell’Oblast di Luhansk, occupato sin dal 2014 dalle forze di Mosca. Un attacco separato è in corso anche verso le città di Svatove e Rubizhne, vitali per la caduta di Luhansk, secondo la Cnn.

A Lyman, intanto, i russi stanno opponendo una forte resistenza, ma le truppe di Kiev avanzano da nord e da sud-est, e avrebbero quasi circondato il nemico: «È possibile che la sacca crolli stasera o domani, il che farebbe passare in secondo piano l’annuncio dell’annessione» osserva l’analista militare Rob Lee, basandosi su fonti russe e filorusse.

Se confermato, per Kiev significherebbe penetrare in profondità nel Donbass, mentre per Mosca una nuova ritirata che aggraverebbe il bilancio già negativo del conflitto, con perdite rilevanti di uomini e mezzi. Gli Stati Uniti ci credono: l’invio di 18 nuovi sistemi missilistici a medio lungo raggio (gli impareggiabili Himars) non significa soltanto raddoppiare la potenza di fuoco di Kiev, ma la dice lunga sulla convinzione di Washington che quelle armi decisive non possono più cadere in mano russa.

L’incognita rimane però la medesima: se Putin fa quel che dice, e se Lyman cade in mano ucraina, è probabile un uso di armi tattiche nucleari che «prenderanno di mira luoghi lungo i fronti con molto personale e attrezzature, centri di comando chiave e infrastrutture critiche» secondo quanto riferisce Vadym Skibitsky, vice capo dell'intelligence ucraina, e capo del direttorato di intelligence della Difesa. Insomma, ogni passo verso la vittoria per l’Ucraina è anche un passo verso l’incubo atomico per tutti noi.

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Luciano Tirinnanzi