Il diario della mia battaglia (vinta) contro il coronavirus
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Il diario della mia battaglia (vinta) contro il coronavirus

Dal 5 marzo al 1 aprile, storia di un mese passato con il Covid-19 e tutte le sue paure

5 marzo.

Le immagini sullo schermo televisivo sembrano riportare un bollettino di guerra mentre le strade di Milano ancora sono vive, i parchi aperti, i bambini che giocano sulle altalene, le mamme chiacchierano sulle panchine e gruppi di runner avanzano ansimando. Tiro un bastone al mio cane riflettendo se intorno a me si sta visualizzando l'ultimo ballo dei Romanov o del Titanic oppure sono io che mi sto preoccupando troppo. Mai Bergamo è sembrata così lontana ai milanesi. Eppure da giorni sulla porta della farmacia un enorme cartello bianco proclama "non abbiamo mascherine - non abbiamo guanti - non abbiamo amuchina". Anche il farmacista senza protezioni scuote la testa. Sui social girano i primi tutorial per fare mascherine con la carta da forno.
È facile individuare il controsenso: i messaggi non hanno valore se non c'è coerenza. Non servono troppe analisi psico-sociali. Anche se non la disse mai, Maria Antonietta è ancora ricordata per la sua frase sulle brioche. Non bisogna scherzare con la comunicazione di massa: se le indicazioni non sono chiare ognuno fa da sé, come può e come meglio ritiene sia. E non sempre va bene.

12 marzo.

Il buio. Non un buio angosciante di cui non si vede la fine, come quel buio che avvolgeva il Santo Padre in piazza San Pietro nell'immagine che porterà tutti noi inconsapevolmente nella Storia. Quel buio che ti spaventava da bambino prima di addormentarti, che ti rendeva inquieto anche se era scaldato dai rumori della strada, dalla luce e dalle voci ovattate che filtravano dalla cucina.
Ora il buio arriva con qualche linea di febbre, poche, che subdolamente non ti fanno preoccupare. Il naso tappato. Un velo di mal di testa. Quel tipico dolore alla schiena dell'influenza che solo il martellamento mediatico ti riconducono al peggio. Sarà un colpo d'aria.

18 marzo.

D'improvviso il virus prende spazio, la febbre si alza, i sapori e gli odori svaniscono, poi vomito, dolori addominali, tosse secca e non ti resta che aspettare, sperando non peggiori. Le informazioni intorno a te sono tutto il contrario di tutto. Il medico di base non sa cosa fare. "Anche noi non abbiamo mascherine. Ci attrezziamo con quel poco che resta. Curiamo 100/120 pazienti ciascuno. Una buona percentuale sono soli e anziani e i parenti ci chiedono di visitarli. Come faccio a non andare? Tutti chiamano per sapere cosa fare. Non abbiamo risposte. La metà che ho in carico sono malati, 10 già in ospedale. Poi bisogna evitare che sorgano complicazioni ai sani, bisogna evitare che i cronici per altre patologie smettano di prendere le pastiglie, interrompano le cure." Infetterò le persone intorno a me? Cosa devo fare? "Rassegnati. Hai il covid-19. Non puoi far altro che aspettare, prendere paracetamolo e stare lontana da tutti". Posso fare il tampone? "Non c'è la possibilità. Potresti andare in ospedale ma è rischioso". Ma alcuni lo fanno a casa? "Il mondo non è mai stato uguale per tutti. Rassegnati". Medico filosofo.

22 marzo.

La tosse non diminuisce. È secca. Il naso chiuso ma non cola. I sudori freddi mi costringono a cambiarmi in continuazione. I problemi di stomaco e alla pancia mi obbligano al digiuno da giorni. L'ho sempre detto che qualche chilo di troppo serve nei momenti di bisogno. Intanto ne ho persi 5.
Accendo la televisione. Le immagini mi danno un groppo in gola e un senso di impotenza. Sono giorni di silenzio guardando un muro. Il dolore alla testa impedisce di leggere, parlo con mio marito attraverso la porta e la notte sento la sua mano sulla mia fronte che controlla la febbre. "Vai via!" gli dico ma intanto penso che gli angeli esistono. Voglio continuare a vederli anche dopo tutto questo.
Al telefono mia madre piange. È sola, lontana. Mia figlia sta bene ma non chiama, non si preoccupa: è nell'età in cui si sente immortale.
Le preoccupazioni non trovano più spazio nella mia mente e si riversano nel corpo. Fuori da questa camera sta morendo la generazione dei miei genitori, quella della ricostruzione, del miracolo italiano, dei diritti civili. Quella che ci ha cresciuto e amato e di cui avremo il dovremo portare il testimone verso il futuro. Dal letto, come tutti gli italiani di fronte a quelle bare sui camion militari ho pianto e mi sono stretta col pensiero ai miei compagni di viaggio su quella barca in mezzo alla tempesta del mare di Galilea chiedendo a Gesù di aiutarci. Nulla sarà più come prima.

25 marzo.

Sono le due del pomeriggio quando un dolore mi chiude al centro del petto. Il fiato manca. È il momento più brutto. La paura fa il resto. Poi capisci che non sei sola, che la tua angoscia è quella di altri, che i tuoi sentimenti sono gli stessi di altri. Una catena di solidarietà sui social mi dà conforto. Arriva un taxi con una bombola d'ossigeno, poi un pacco con un saturimetro, poi dieci mascherine, biscotti dalla custode, un libro e anche due pacchi di carta igienica. Sono i miei angeli punto zero.
Una notte passata in bianco in un silenzio irreale rotto dal sibilo del mio respiro e dal rumore incessante di ambulanze. La realtà di altre sofferenze che ti chiama.

29 marzo.

La linea blu del termometro che ha tracciato il percorso di queste giornate indica 36 (ancora sotto effetto del paracetamolo). "Sei fuori!" dice l'sms del medico. "Stai riguardata per cinque giorni".
Ecco di nuovo la realtà. Come una commedia dell'assurdo nessuno sa dirmi cosa fare: sono immune, sono contagiosa? Lo scopriremo solo vivendo. Ed è già molto.

1 aprile.

Passa anche il mal di testa. Mi chiedono di scrivere queste righe, lo faccio con gioia. Spero che il racconto della mia esperienza possa essere utile ad altri. Intanto io sono felice perché ho trovato gli angeli.

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Elena Fontanella