Il motto di Civati: "Armiamoci e partite"
Massimo Percossi/Ansa
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Il motto di Civati: "Armiamoci e partite"

Anche lui vota la fiducia a Renzi. La solita mesta resa dopo i proclami di guerra

Fosse stato per lui, ha detto, non avrebbe votato la fiducia. Ma se non per lui, allora per chi?

Pippo Civati ha un talento particolare, quello di accendere delle polemiche infuocatissime contro il suo partito, il Pd, minacciare sfracelli e alla fine fare marcia indietro rientrando, diligentemente, nell'ovile.

Un film visto e rivisto più volte, prima con l'elezione del presidente della Repubblica, poi con la fiducia al governo delle larghissime intese (quelle, per capirci, con Silvio Berlusconi dentro), con la vicenda Alfano, con quella Cancellieri e infine con la fiducia a Matteo Renzi.

Per molti giorni Civati ha minacciato di “recuperare 12 senatori”, andare da Renzi e dirgli “il contrario di quello che propongono Formigoni e Sacconi”, proporgli, insomma, “matrimoni egualitari, lo stop agli F-35, lo stop al consumo di suolo (magari anche NoTav), il reddito minimo, la progressività fiscale, il conflitto d’interessi, lo ius soli e legalizzazione delle droghe leggere”.

Un ribellismo talmente apprezzato dalla sinistra radicale da procurargli un tifo da stadio e, dai più acculturati, alti peana alla sua coerenza contro il violento voltafaccia di Matteo il bugiardo.

"Perché stiamo facendo un altro governo con questi signori, preoccupati solo di non discutere di unioni civili e di ius soli?” è stato il leit motiv rilanciato ogni volta ai microfoni dei giornalisti davanti ai quali Civati (ci avete fatto caso?) riesce sempre a presentarsi un minuto prima o un attimo dopo i suoi colleghi di partito.

Un “altro governo” che è, comunque, la versione moderata di quello votato ad aprile anche da lui.

“Mi spiegate perché ci siamo detti ufficialmente contrari alle larghe intese (era ora) e per tutta risposta ne facciamo delle altre, che sono solo più lunghe delle precedenti? - è stato per giorni l'insistente piagnisteo - Me lo spiegate voi, perché io non ce la faccio?

Alla fine, invece, anche Pippo ce l'ha fatta. I sei senatori civatiani (perché, che a Civati piaccia o meno, la corrente civatiana esiste eccome) hanno votato la fiducia ieri, lui, da deputato, la voterà, obtorto collo, oggi perché, si è giustificato, “non voglio essere cacciato dal Pd”.

Una “fiducia sfiduciata” che ha deluso molti.

Sul suo blog c'è chi scrive che “rimanere all'interno della casta con le idee che ha pubblicato non solo da oggi Civati non ha senso”, chi gli rinfaccia di aver votato oggi per un governo "pessimo e ridicolo" che da domani, probabilmente, ricomincerà a criticare. Chi, ancora, gli ricorda che "l’umanità si divide in chi avrebbe potuto farlo e chi invece l’ha fatto" e chi desolato commenta "tu mi sembri quelle donne che continuano a prendersele dai mariti e dicono ‘non lo lascio, col mio amore cambierà’”.

Un cane che abbaia, ma non morde. Per opportunismo, per comodità, perché probabilmente Civati stesso sa benissimo che fuori da Pd non avrebbe chance. Un po' perché Sel è un partitino da meno del 3% che rischia seriamente di scomparire dal Parlamento al prossimo giro elettorale; un po' perché la cosiddetta sinistra piddina incarnata dai vari Cuperlo, Fassina e Orfini mai e poi mai lascerebbe il giochino in mano a Renzi facendosi da parte, addirittura staccandosi dal Pd. Per questo Civati preferisce tenersi il suo “disagioprofondissimo”, rinunciare alla “smisurata ambizione” di riportare il Paese al voto e rassegnarsi a fare quello che, in fondo, ha sempre fatto: tutto il contrario di quello che aveva detto fino al minuto prima.

Come quando ha votato no, “per disciplina di partito”, alla richiesta di sfiducia presentata dal M5s contro l'ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri per la vicenda delle presunte telefonate a favore di Giulia Ligresti all'epoca detenuta in carcere, dopo aver firmato, lui stesso, una mozione per le dimissioni che poi rinunciò a presentare.

O come all'epoca del caso Alfano-Shalabajeva quando Civati accusò Dario Franceschini di aver minacciato di espulsione i senatori che, disattendendo l'ordine di scuderia, avessero votato la mozione di sfiducia al ministro dell'Interno presentata da Sel e M5s. “Alla riunione dei senatori Civati non c'era e mi accusa di avere minacciato espulsioni. Cosa falsa che non ho detto né pensato” la replica di Franceschini a Civati sconfessato anche dal capogruppo al Senato Luigi Zanda che parlò di accuse “totalmente infondate”.

Ma anche come quando nell'aprile scorso lasciò l'Aula al momento del voto di fiducia al governo Letta che ad aprile nasceva con l'appoggio del Pdl di Silvio Berlusconi. Non votò a favore, ma nemmeno contro. Protestò ma non ruppe. Abbaiò, ma non morse. Una finta replicata ancora fino a ieri. Ma da domani, Pippo, chi ci cascherà più?

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