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Caso Ilaria Alpi, storia di un'indagine senza colpevoli

A 23 anni dalla sua morte, la Procura di Roma chiede l'archiviazione. Nessun movente, nessun autore, nessun depistaggio. Nessuna giustizia

La morte di Ilaria Alpi è destinata a diventare uno dei tanti misteri italiani irrisolti. Proprio come il caso del Moby Prince, dove nel 1991 morirono bruciate 140 persone e sul quale Ilaria Alpi, poco prima di morire, aveva cominciato a far luce trovando in terra somala alcuni collegamenti con la strage avvenuta davanti al porto di Livorno.

La speranza si spegne nel primo pomeriggio del 4 luglio: “Impossibilità di risalire al movente ed agli autori degli omicidi dell'inviata del Tg3 Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin, avvenuti il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, e nessuna prova di presunti depistaggi”.

È questa la motivazione con cui la procura di Roma chiude, con una richiesta di archiviazione, l'inchiesta sui fatti di 23 anni fa. Adesso è tutto nelle mani del gip che può decidere di accettare o meno.

Una resa quella della Procura di piazzale Clodio che sembra l’unica soluzione possibile considerato il lasso di tempo trascorso ma soprattutto le complicazioni legate all'esecuzione di accertamenti in un Paese dove sono assenti punti di riferimento istituzionali. Tanto che a sollecitare il gip a mettere la parola "fine" sui fatti di Mogadiscio, previa approvazione del procuratore Giuseppe Pignatone, è stato il pm Elisabetta Ceniccola.

La storia

Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis. La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli Anni '80.

Ilaria Alpi salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di mezzi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo.

Le inchieste

Le inchieste della giornalista infatti si erano concentrate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali che avrebbe visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni.

Nel novembre del 1993 era stato ucciso, sempre in Somalia ed in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi proprio sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano.

Il primo processo

Il 18 luglio 1998 il sostituto procuratore di Roma Franco Ionta formulò la richiesta di rinvio a giudizio a carico del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di concorso in omicidio volontario aggravato.

Poi, alcuni anni dopo si capirà che era stato incarcerato ingiustamente e inizierà un lungo processo di revisione. Quasi un decennio passa tra dichiarazioni, testimonianze false e soprattutto false speranze di fare chiarezza una volta per tutte. 

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La seconda indagine

Infatti, nel 2007, la Procura di Roma chiede l’archiviazione sul caso Alpi, ma il gip Emanuele Cersosimo, respinge e dispone ulteriori accertamenti.

Nel frattempo, però, la Corte di appello di Perugia il 19 ottobre 2016, a conclusione del processo di revisione, assolve l'unico condannato, il somalo Hashi Omar Hassan, con particolare riferimento all'assenza di qualsiasi indicazione su movente e killer.

Ma come era finito in carcere Hassen?

Le false dichiarazioni di “Gelle”

La parte di inchiesta dedicata ai presunti depistaggi aveva preso le mosse proprio dalle motivazioni della sentenza di Perugia, nella parte in cui si parlava delle presunte anomalie legate alla gestione di un testimone, rivelatosi falso, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, anch'egli somalo.

Fu proprio quest'ultimo a chiamare in causa Hassan una volta arrivato a Roma. Ma dopo averlo accusato di essere l’omicida dei due giornalisti, scompare nel nulla fino a ricomparire in Gran Bretagna scovato da Federica Sciarelli e dalla troupe di "Chi l'ha visto". È proprio all'inviata del programma della Sciarelli che Gelle ha ammesso di aver dichiarato il falso, ossia che non si trovava sul luogo del duplice omicidio e di aver accusato Hassan in quanto "gli italiani avevano fretta di chiudere il caso".

In cambio della sua testimonianza, dichiarò Gelle, ottenne la promessa che avrebbe lasciato il paese africano, dove la situazione sociale era tesissima.

Gli ultimi accertamenti

Dagli accertamenti, che hanno comportato l'audizione di tutti coloro che gestirono quello che, successivamente, si sarebbe rivelato un falso testimone, non sono emersi elementi tali da configurare un depistaggio.

Dunque, nessun depistaggio, nessun colpevole, nessun mandante. A distanza di 23 anni, solo bugie, delusione e dolore per i familiari di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin che ancora non hanno avuto giustizia e forse mai l’avranno.

In tutta questa storia, rimane solo un’unica certezza: una tomba nel Cimitero Flaminio di Roma. È qui che è stata sepolta Ilaria.

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Nadia Francalacci