Visite ai boss in carcere. Perché?
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Visite ai boss in carcere. Perché?

L'editoriale del DIrettore di Panorama in edicola sui gesti del duo Alfano (Idv)-Lumia (Pd)

Non vorrei che l’aria vacanziera e le difficoltà di concentrazione facessero venire meno l’attenzione che invece merita la vicenda delle visite in carcere di Giuseppe Lumia, parlamentare del Pd, e Sonia Alfano, europarlamentare dell’Idv.

È una storia grave per numerosi motivi che cercherò di elencare. I due parlamentari hanno, al pari dei loro colleghi, il diritto di visitare e parlare con i detenuti – anche i più pericolosi come i mafiosi ristretti al 41 bis – purché le conversazioni si limitino alle condizioni di vita nei penitenziari.

Alfano e Lumia, invece, hanno parlato e parlato e parlato ancora con Bernardo Provenzano e altri condannati per mafia come se fossero dei magistrati. Hanno inscenato una sorta di apostolato del pentitismo e hanno fatto un pessimo servizio alla giustizia. Perché se anche uno dei mafiosi invitati dai chierici vaganti dell’antimafia si fosse davvero pentito, le confessioni sarebbero finite nella spazzatura per la genesi tutt’altro che genuina. Non è casuale, poi, che i due parlamentari mal celino il loro interesse politico a «convertire» Antonino Cinà e Filippo Graviano: si tratta di due personaggi che potrebbero risolvere la fragilissima e inconsistente inchiesta di Palermo che punta a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Non a caso a Cinà, addirittura, chiedono della «trattativa» e delle dichiarazioni del pataccaro Massimo Ciancimino. Quel che adesso importa è capire se tutti gli attori ce l’hanno raccontata giusta e per intero questa storia. Vi prego quindi di armarvi di santa pazienza e seguirmi nel ragionamento.

Il ministero della Giustizia. Il 9 agosto, quando la vicenda è in prima pagina del Corriere della sera e scoppia la polemica, il guardasigilli Paola Severino diffonde una nota nella quale informa di essersi mossa il 3 agosto. Quel giorno, specifica, ha «sensibilizzato» i direttori delle carceri a intervenire e spingersi fino a interrompere le conversazioni tra parlamentari e detenuti se si trasformano in colloqui su «procedimenti in corso». Perché solo il 3 agosto se il primo colloquio tra Lumia, Alfano e Provenzano risale addirittura al 26 maggio? Possibile che il ministero ignorasse quel che era accaduto? La risposta è no: il ministero sapeva.

Il 2 agosto, richiesta da un giornalista (non del Corriere) di una conferma e di un commento sulla storia, la Severino cade dalle nuvole. Evidentemente colma le sue la- cune in fretta e furia perché il giorno successivo fa partire la nota di fortissima censura nei confronti dei parlamentari. La verità è che gli alti vertici del ministero certamente sapevano di quel colloquio, c’è traccia perfino sui quotidiani del 5 giugno (articolo strillato addirittura in prima pagina sul Fatto). Perché allora il ministero della Giustizia interviene dopo due mesi e dopo numerose altre tappe del tour nelle carceri? Non solo. Secondo quanto risulta a Panorama, immediatamente – e quindi già a maggio – arrivò al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero una nota della polizia penitenziaria di Parma che segnalava la grave anomalia del colloquio con Provenzano. Roberto Piscitello, direttore generale del Dap e responsabile della gestione dei detenuti al 41 bis (come Provenzano), ricevette la nota e la trasmise di gran solerzia al suo superiore, il capo del Dap Giovanni Tamburrino. La nota, seppure dal contenuto così delicato e urgente, si perse incredibilmente nel breve tratto che separa le stanze di Piscitello e Tamburrino al ministero di via Arenula. Il direttore generale la inviò nuovamente e incluse tra i destinatari il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Ma a essere informate, sempre dal ministero oltre due mesi fa, furono anche la Procura di Palermo e quella di Bologna, competente per i fatti di mafia legati al territorio di Parma (dove, ricordiamo, è detenuto Provenzano). Che iniziative ha ritenuto di prendere Grasso, al quale spettano i poteri di coordinamento tra i vari uffici giudiziari, dopo la segnalazione? E che cosa fece dopo che il 4 luglio, a seguito di un nuovo incontro Alfano-Lumia e Provenzano, vennero ancora una volta palesemente violati i regolamenti come fu puntualmente segnalato dalla polizia penitenziaria alla Procura nazionale antimafia oLltre a quelle di Palermo e Caltanissetta?

La Procura di Palermo. Al centro di questa storia c’è il procuratore aggiunto Antonio Ingroia. È lui che, con il collega Ignazio De Francisci, vola a Parma per interrogare Provenzano tra il 27 e il 31 maggio. Il 26 c’è stato il primo colloquio tra il superboss e il duo Alfano-Lumia. È solo una coincidenza? Oppure i parlamentari avvertono preventivamente della visita la Procura di Palermo? O segnalano soltanto dopo – e direttamente a Ingroia – l’esito del loro colloquio con il capomafia? E perché, se è così, «scelgono» Ingroia e non si rivolgono al procuratore Francesco Messineo, come sarebbe corretto dal punto di vista istituzionale? Un contatto tra la Alfano e la Procura di Palermo (non si sa nella persona di chi) avviene certamente subito dopo il 26 maggio: l’eurodeputata denuncia di avere interpretato come minacce alcuni fatti (un sms, una strana telefonata) accaduti proprio mentre va a visitare Provenzano a Parma. L’avvocato di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, viene casualmente a conoscenza dell’interrogatorio il 1° giugno da una telefonata di un giornalista del Fatto. Cade dalle nuvole, pensa che si tratti di un errore: come può essere stato interrogato Provenzano senza la presenza del suo difensore? Sarebbe la prima volta che accade dalla cattura nel 2006. E per quale inchiesta, oltretutto? Il legale chiede così il 4 giugno alla Procura copia dell’interrogatorio: dopo oltre due mesi non ha ancora avuto una risposta. Le condizioni di salute di Provenzano sono assai particolari e questo rende ancora più difficile decifrare l’accaduto chiedendo lumi al diretto interessato. L’ex numero uno di Cosa nostra è molto malato, appare assai lontano dalla realtà, ha evidenti problemi nel collocare gli eventi nel loro giusto spazio e tempo (il senatore Lumia, sentito da Panorama, sostiene invece che è «lucidissimo»). Nei recenti incontri con i familiari sembra che abbia accennato a non meglio precisati soggetti che gli avrebbero fatto «strani discorsi nuovi a cui io non sono abituato». Panorama pubblica anche una lettera che il boss ha inviato il 2 agosto ai familiari: al netto del delirio sintattico è una sequela di parole senza alcun senso logico.

Ma, altra domanda, perché Alfano e Lumia tornano il 4 luglio da Provenzano? Ci sono già andati il 26 maggio e non hanno raccolto alcuna apertura al pentimento da parte del boss, sanno – quantomeno dai giornali del 5 giugno – che subito dopo sono andati a interrogarlo i pm Ingroia e De Francisci. Perché, dunque, tornare? Che senso ha?

Le domande sono tutte qui, finora.

In estrema sintesi abbiamo: due parlamentari che, come Hänsel e Gretel, vanno in giro per penitenziari e lasciano ovunque tracce dei loro goffi tentativi di far pentire il gotha della mafia; il ministero della Giustizia che sa pressoché in tempo reale delle macroscopiche violazioni compiute dai parlamentari ma interviene dopo oltre due mesi per stigmatizzarle; la Procura di Palermo che sa e non solo si guarda bene dall’intervenire ma, anzi, per bocca di Ingroia approva il comportamento dei parlamentari; il procuratore nazionale antimafia che sa e tace.

Questo è lo stato dell’antimafia in Italia. C’è di che preoccuparsi.

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Giorgio Mulè