Il martire laico e l'Isis
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Il martire laico e l'Isis

Noi - noi contemporanei, intendo - viviamo forse in un tempo che può essere definito l'era della vittima. Da un lato per ragioni oggettive, ossia perché la società in cui tutto è di massa e impersonale, comprese la guerra e le armi, tende a falciare in gran numero, nei propri atti di violenza, persone che non hanno in nessun modo scelto un'appartenenza o uno schieramento, né tantomeno si sono esposti consciamente a pericoli mortali.

Dall'altra parte, la condizione di vittime, cioè appunto di incolpevoli oggetti della ferocia altrui, garantisce un credito: e anche troppo spesso questo credito, più o meno reale, è stato in tempi recenti strumentalizzato a giustificazione di interventi cosiddetti umanitari o pacificatori. (Né questa riflessione va letta per forza in termini polemici: ogni tempo e ogni società hanno trovato le proprie scuse peculiari per giustificare arbitrî sempre simili).

Il martire è invece un'altra cosa. Il martire ha già scelto da tempo, fino a interiorizzarla, la causa per cui si sacrifica; e se non ci fosse una certa irriducibile dissonanza fra la scelta e le conseguenze di questa, si potrebbe tranquillamente sostenere che si tratti, quanto al martirio, di un ragionamento ponderato, una riflessione sviluppata in tutta calma nella pace di una dimora isolata. Il martirio, anche quando non si ha nessuna simpatia per una causa e perfino quando questa ci appare infondata o sciocca, incute rispetto; ma provoca pure una qualche soggezione, e in parte fa paura. Soprattutto, è raro o forse impossibile che il martirio appaia come una scelta di pace; chi si sacrifica per una causa, ci pare, testimonia che quella causa prevarrà e che quella opposta, quella cioè che condanna e abbatte il martire, verrà sconfitta, dispersa, annullata.

In un certo senso questo è vero anche per i ventuno uccisi in Libia dagli sgherri locali dello Stato Islamico. Non che ci sia della violenza, anche implicita, da parte di quei lavoratori pacifici, dei giovani emigranti costretti dalla brutalità tutta scenografica dell'Isis a inginocchiarsi di fronte al mare (in un gesto assai più pagano - gole sacrificate al dio Oceano - che aderente al rigorosissimo monoteismo islamico); ma è la disumanità stessa degli assassini a porre il discrimine: loro uccidono chi è diverso, e chi è diverso, da parte sua, non può che desiderare la distruzione dei terroristi. La loro fine è un desiderio che sentiamo tutti, è un fatto basilare di civiltà. Il martirio dei copti diventa allora il simbolo più evidente di un'opposizione irriducibile, che per forza di cose sarà anche violenta. E se certamente si dovrà durare molta attenzione a non fare della lotta che è già in corso una guerra di religione, pure non si può negare che i migranti egiziani siano martiri della propria fede. Non è una guerra di religione, da parte loro, perché nessuno di quei venti egiziani ha alzato il proprio braccio su nessuno, ma resta il significato religioso di quelle morti. Non stupisce, quindi, che la chiesa ortodossa copta abbia già proclamato ventuno nuovi santi, assegnando loro, anche nella raffigurazione iconica, la corona del martirio.

Avrete notato che i copti egiziani sono venti, ma i martiri sono ventuno. Non è un errore; è che fra gli uccisi, lo abbiamo visto tutti dai fotogrammi iniziali del video della loro esecuzione, mostrati dai nostri media, c'è un africano nero, un subsahariano. Non si sa neanche chi sia, o nemmeno con certezza da dove venga: c'è chi lo dice ciadiano, mentre altri lo vogliono ghanese. Probabilmente è finito nel rastrellamento degli egiziani perché, come loro, era emigrato in Libia per cercare un lavoro, un piccolo guadagno, una vita più degna e felice; ma il suo è stato un martirio tutto differente. L'africano non è stato una vittima della propria fede ancestrale, della propria identità e appartenenza quasi inevitabili; che sia vero o no che sia rimasto impressionato dalla saldezza dei copti e abbia voluto seguirli nella loro fede e nel loro destino (sarà difficile avere conferme su questo punto), c'è di sicuro che l'africano, a differenza di tutti gli altri, ha scelto: ha potuto scegliere, lui che non aveva colpe ereditate agli occhi di quegli assassini, fra l'essere martire o carnefice. Sicché il suo martirio non è stato, o non soltanto, una scelta di fede, che, come tale, sarebbe stata di parte e avrebbe fondato un'opposizione e una distinzione anche fra gruppi umani; invece quella di quel ghanese, o ciadiano, è stata in primis una scelta di pace o di civiltà. La decisione, per citare una formula bella e drammatica, di restare umano.

I martiri copti sono pianti e rispettati da ogni essere umano decente; ma non possono essere i morti di tutti. Il martire africano, invece, non è morto per una fede o una causa; è stato martire per non essere assassino, per rimanere umano. Ha fatto la scelta più giusta e più difficile, nell'ora del terrore e dell'estrema fragilità. In estrema sintesi, è morto non per ciò che era, ma per ciò che non è voluto essere. Se ci fosse un Martirologio laico, allora, credo che quest'uomo ignoto dovrebbe entrarvi di diritto, come esempio luminoso di santo umano; e allo stesso modo trovo sia tremendamente simbolico e appropriato che quest'uomo di tutt'altra origine finisca per diventare uno degli innumerevoli martiri dei cristiani d'Oriente, la cui forse prossima scomparsa è tanto colpa di persecutori implacabili quanto di presunti difensori goffi o disonesti.

(la rappresentazione iconica dei martiri di Sirte è un'opera dell'artista Tony Rezk)

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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