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Voto-Fobia: il Governo mette i bastoni tra le ruote ai governatori

  • ELEZIONI – Sono sette le regioni che aspettano di andare alle urne dopo la pandemia. Il premier Conte punta all’Election day a fine settembre. Che scontenta tutti. E a farne le spese saranno gli studenti. Sfrattati dalle aule per far posto ai seggi…

  • L’ILLUSIONISTA DEL POPOLO – Giuseppe Conte, da «avvocato degli italiani» a prestigiatore di dichiarazioni. Su Ilva, Alitalia, Mes, scuola e Fca è l’annuncio che conta. Possibilmente, con termini ignoti ai più.


  • Uno, diabolico e trino. Le fasi politiche di Giuseppe Conte sono ormai scandite dagli eterni motti andreottiani. Appena nominato, allo spaurito giuristi di Volturara Appula ben si attagliava la prima arguzia: «So di essere di media statura, ma non vedo giganti intorno a me». Poi, passato il ribaltone giallorosso, il premier per caso è entrato in una nuova fase: «Il potere logora chi non ce l’ha». Adesso, una metamorfosi via l’altra, personifica l’ennesimo lampo del Divo Giulio: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». L’aforisma, stavolta, ha un imprescindibile corollario: evitare le urne. Cercare di rinviare ogni consultazione popolare fino all’improcrastinabile. Regionali, amministrative, elezioni anticipate: rimpallare, glissare, sorvolare. Giuseppi, per conservare il potere piovuto dal cielo pentastellato, ora è disposto a tutto.

    Gambe che fanno giacomo giacomo. Fifa blu. Paura di votare. Lasciare Palazzo Chigi, per il già «avvocato del popolo», sarebbe una iattura. Dopo mesi di democrazia sospesa, dibattito azzerato ed esasperato solipsismo, non ha nessuna intenzione di ridare fiato alla democrazia. I partiti rischiano di togliere spazio al suo agognato protagonismo. Gli alleati meditano sgambetti. L’opposizione, messa in un angolino durante la gestione della pandemia, è pronta a svilire i suoi bei proclami. Passata la crisi sanitaria, come previsto, è arrivata quella economica. L’Ocse prevede quest’anno un calo del Pil fino al 14 per cento. Liquidità, cassa integrazione, crisi aziendali. Va tutto a catafascio. Le «poderose» misure annunciate restano palliativi. Il premier vuole così scansare bagni di propaganda avversa. E schivare la probabile sconfitta degli alleati. Scaltro e machiavellico, prende tempo. E spera che passi la buriana.

    Sette regioni aspettano però ardentemente le elezioni: Valle d’Aosta, Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Puglia e Campania. Così come oltre mille Comuni, tra cui Venezia e Trento. Il voto era previsto nella tarda primavera, ma il coronavirus l’ha fatto slittare. Andranno alle urne un terzo degli italiani. Per intorbidire le acque, i giallorossi stanno approntando l’Election day a fine settembre. Un modo per annunciare risibili risparmi. E soprattutto limitare i danni, accorpando alla tornata un sempiterno cavallo di battaglia dei Cinque stelle: l’ultrapopulista referendum sul taglio dei parlamentari. Una consultazione che sarà un plebiscito. Così, servirà una nuova legge elettorale. Solo allora si potrebbero indire le tanto temute elezioni anticipate. Dunque, ragionano i giallorossi, basta tirare a campare fino al prossimo aprile, quando si chiude l’ultima finestra temporale utile per votare. Ad agosto 2021 scatta infatti il semestre bianco, che precede l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Quindi, si va dritti dritti alla scadenza naturale della legislatura: marzo 2023.

    Diavolo d’un Giuseppi. Intanto, però, occorre concentrarsi sulle prossime regionali. E l’ipotesi del rinvio a oltranza ha già scatenato il pandemonio tra gli interessati. Ma l’ipotesi del rinvio a oltranza ha già scatenato il pandemonio tra gli interessati. I governatori ricandidati spingevano difatti per fare presto. Invano. «Il governo non vuole votare a luglio. Resterà una macchia nella storia di questo esecutivo» assicura il doge veneto, Luca Zaia. «Avremo piscine, discoteche, cinema e teatri aperti. Ma non libere elezioni». E le date ipotizzate, rilancia, sono «imbarazzanti».

    Insomma: a settembre riapriranno le scuole, dopo sei mesi di forzata lontananza dalle aule. Ovviamente se Lucia Azzolina, intrepida ministra dell’Istruzione, vorrà. Una settimana di lezione. E, di nuovo, filati a casa: per rituffarsi nella mirabolante didattica a distanza approntata dalla Franca Falcucci pentastellata. Toccata e fuga, quindi. Perché servirà almeno una settimana per sanificare i tanti istituti che faranno da seggio. Dopo, previa nuova disinfezione, i ragazzi potranno tornare in classe. Per un’altra settimana. Perché poi arriveranno pure i ballottaggi: altra sanificazione, nuovo voto, ultime pulizie generali. A questo punto, ci permettiamo un suggerimento all’ineffabile Giuseppi e alla prode Lucia: riapriamo le scuole direttamente a metà ottobre. Cosa volete che sia, a questo punto, un mesetto in più o in meno?

    Senza considerare, ovviamente, il rischio di una recrudescenza del virus. Perfino il comitato tecnico scientifico di Palazzo Chigi, oracolo sanitario diventato foglia di fico politica, sconsiglia elezioni in autunno. Stavolta però il premier, sempre ligio alle indicazioni degli esperti, se ne impipa. «Perché è un test nazionale sulla tenuta dell’esecutivo» conclude Zaia. «E il governo ha paura di votare». Dalle opposte sponde democratiche, Vincenzo De Luca, presidente della Campania, non è meno corrosivo: «A settembre, tra influenza e rischio di una nuova epidemia, sarà un inferno». Il collega ligure, Giovanni Toti, affonda: «Sarebbe una responsabilità grave rinviare ancora l’inizio delle lezioni. È una forzatura che saprebbe di arroganza». Quel ribaldo di Michele Emiliano, re delle Puglie, intanto cerca la rissa: «Con questi artifizi, il governo sta cercando di imporre delle date diverse da quelle scelte da noi. Una cosa gravissima. È la prima volta che accade nella storia della Repubblica».

    Ma a smaniare non solo i diretti interessati. Dall’Emilia-Romagna pure Stefano Bonaccini, celebrato governatore del Pd e presidente della Conferenza delle regioni, intima: «Le elezioni vanno svolte entro la metà di settembre, così da consentire una normale ripresa delle lezioni». E persino la collega dem Anna Ascani, viceministro dell’Istruzione, tentenna imbarazzata: «Non possiamo permetterci di aprire le scuole e richiudere subito dopo, per trasformarle in seggi».

    Del resto, il governo ha già dimostrato rara insensibilità sul tema. Siamo stati i primi a serrare le aule. E saremo gli ultimi a riaprirle. Con calma, però. Giusto il tempo di votare. In Francia, nel mentre, tutti sono tornati in classe. E il prossimo 28 giugno è previsto pure il secondo turno delle amministrative, sospese a marzo per il Covid-19. «Dopo aver ponderato i pro e i contro, riteniamo che la vita democratica debba riprendere i suoi diritti» annuncia il primo ministro francese, Édouard Philippe. Vaglielo spiegare al collega Giuseppi che, a differenza dell’omologo transalpino, non ha mai preso un voto. Lui è l’ottimato pentastellato. Per il nostro premier, issato a Palazzo Chigi dal Movimento, le consultazioni popolari sono come la kriptonite per Superman. O una collana d’aglio per Dracula. Da evitare. Assolutamente. Meglio, molto meglio, applicarsi a quelle manovre di palazzo per cui dimostra talento innato.

    Serve tempo. Ai Cinque stelle: per cercare di non implodere. Ai giallorossi: per sedare la guerriglia. A Conte: per far assuefare gli italiani alla crisi. Nell’attesa, dopo mesi di monarchia assoluta, il premier rilancia il dialogo. Un improbabile ed estenuante conclave economico a Villa Pamphili è in svolgimento. Sono i messianici Stati Generali. Saranno l’oggetto misterioso su cui scaricare i futuri fallimenti. Già, Giuseppi è pronto a tutto. Dagli antenati diccì non ha ereditato solo il doroteismo, ma pure la spietatezza. Adesso dileggia i sempre ossequiosi giornalisti, rei di timide osservazioni. Incenerisce le proposte della task force guidata da Vittorio Colao, temuto badante economico. E sibila ermetico: «C’è un pezzo di Stato che rema contro le riforme e il governo». Quale? Boh. A dire il vero, l’unico che voga disperatamente in quella direzione sembra proprio Palazzo Chigi.

    Anche nella maggioranza, comincia così a serpeggiare l’ipotesi di urne anticipate. Buona parte dell’opposizione chiede di accorparle al famigerato Election day. Matteo Salvini, comandante leghista, ragiona: «Conte è finito, andiamo a votare in autunno. Pd e Cinque stelle facciano lo stesso esame di coscienza che ho fatto io, quando ho capito che tutto era bloccato». Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, reitera: «Il governo ha fallito. Mettere insieme due forze che si detestano porta a questo. Perché allora non si dovrebbe votare? Il Covid-19 ce l’ha con gli elettori delle Politiche? Si cerca sempre una scusa, specie se c’è il rischio che non vinca la sinistra».

    Eppure, il presidente del Consiglio dovrebbe fremere pur di andare alle urne. I sondaggisti s’affannano a testare un suo ipotetico partito, già accreditato di un abbondante 14 per cento. La lista pescherebbe soprattutto tra gli indecisi. E ovviamente dal bacino dei Cinque stelle. Tanti voti, magari. Ma poco determinati, in prospettiva. E anche la recente storia consiglierebbe prudenza. Italia viva, il partito personale di Matteo Renzi, vivacchia tra due e il tre per cento. Scelta civica, lanciata da un altro professore fatto premier come Mario Monti, sembra preistoria. Futuro e libertà, di Gianfranco Fini, è mesozoico. Adesso sarebbe il turno di Giuseppi. Per la sua la sua creatura, avrebbe scelto un irresistibile calembour: Con-Te. Possibile, ma improbabile. La pronunciata egolatria del giurista pugliese non pare arrivare a tanto. E il teorico consenso di cui gode viene alimentato dalla sua apparente terzietà.

    E poi un partito ce l’avrebbe già. Sono i Cinque stelle. Loro l’hanno voluto a Palazzo Chigi. Lui, da Signor Nessuno, è diventato l’Ultimo Trasformista. E ora anche il Movimento, in stato comatoso, è pronto per l’ennesima trasfigurazione. Dilaniato all’interno e in cerca di un leader, vagheggia l’arrivo di un nuovo messia. S’avanza Alessandro Di Battista? Sarebbe un mesto ritorno al passato. Meglio, a quel punto, lo statista Giuseppi. L’unico di cui si fida il fondatore: Beppe Grillo. E l’unico che il Fatto quotidiano di Marco Travaglio, lanciagranate pentastellato di precisione, sarebbe disposto a sostenere indefessamente.

    Già, Conte non ha nessunissima voglia di passare dalle urne. I Cinque stelle sono destinati a dimezzare voti ed eletti. E il consenso personale del premier potrebbe essere transitorio. I supposti successi sanitari dell’esecutivo assomigliano ormai a una cartolina sbiadita. Mentre la crisi è una vivida istantanea. Cassa integrazione, aiuti a imprese e partite Iva, bonus inservibili. Sgangherato statalismo. E il raduno delle «menti brillanti» sembra un tardivo espediente per dividere i demeriti. All’inizio della pandemia, a reti unificate, il primo ministro italiano rassicurava il Paese impaurito. Un uomo solo al comando. Il proscenio era tutto per lui. Adesso la rabbia ha scalzato lo spavento. Così Conte chiama magnanimamente tutti a raccolta. Perfino l’arcinemico Salvini è invitato al rendez vous di Villa Pamphili. Ma alla garibaldina, via sms. «Venite a esporre le vostre idee». Risposta: «Ti faremo sapere». Ovvero, niente da fare.

    Il premier sa che il vento sta per cambiare. Serve smussare. E prendere tempo: nulla sarebbe più deleterio per le sue sterminate ambizioni che una campagna elettorale. Il memento resta Massimo D’Alema: scalzato nell’aprile di vent’anni fa, dopo una sconfitta alla Regionali. «Atto di sensibilità politica, non certo per dovere istituzionale» disse allora l’ex segretario del Pds. Curiosamente tornato, proprio in questo tribolato frangente, a ispirare le scelte economiche della maggioranza.

    Ecco, magari Giuseppi non sarà luciferino come Joker. Però, da andreottiano in sedicesimo, ha ben presente la frase con cui l’arcirivale Bettino Craxi fulminò una volta il Divo Giulio: «È una volpe, ma prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria». Appunto: meglio poi, che prima.


    ECCO A VOI L’ILLUSIONISTA DEL POPOLO

    Voto-Fobia: il Governo mette i bastoni tra le ruote ai governatori
    Ansa

    Si consolida la strategia del presidente del Consiglio da «avvocato degli italiani» a prestigiatore di dichiarazioni. Su Ilva, Alitalia, Mes, scuola e Fca è l’annuncio che conta. Possibilmente, con termini ignoti ai più.

    di Francesco Bonazzi

    Su Autostrade «stiamo studiando la caducazione». Se il diavolo si nasconde nei dettagli, Giuseppe Conte si annida nei garbugli. Ponte Morandi, Ilva, prestito Fca, Fondo salvastati, decreto Liquidità, crisi Alitalia, riapertura delle scuole. Che si tratti di questioni antiche, di problemi più recenti o di emergenze negate, il suo stile di governo è quello di far macerare i dossier più delicati, cavandosela con i giochi di parole. In due anni è passato da «avvocato del popolo», come si definì uscendo dalla stanza del presidente Sergio Mattarella dopo aver accettato il suo primo incarico, a illusionista della nazione.

    Fedele a se stesso, e solo a se stesso, il giurista di Volturara Appula non a caso si è perfezionato all’alta scuola del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il sinedrio dei magistrati amministrativi dove stato di diritto e diritto dello Stato s’impastano in un’unica sfoglia che può essere tirata da una parte e dall’altra. E come in certe sentenze del Tar, il parlare di Giuseppe Conte non è mai univoco, mai realmente definitivo. Conte Bis potrà sempre impugnare Conte Uno e Conte Ter, se mai ci sarà, ricomincerà tutto da zero con la destrezza di una mano che rassetta il ciuffo.

    A 22 mesi dal crollo del ponte sul Polcevera, con 43 morti che ancora aspettano giustizia, il premier Conte se l’è cavata così, nel corso di una delle ultime conferenze stampa a Palazzo Chigi: «Su Autostrade, per quanto mi riguarda, nulla è cambiato: c’è una procedura di caducazione della concessione in corso. Ci sono conclamati inadempimenti del concessionario quindi per me ci sono tutti gli estremi per la revoca». «Caducazione», che significa il venir meno degli effetti giuridici di un contratto, è termine ben più generico di revoca, l’unico che possono capire tutti gl’italiani. La caducazione «è in corso», mentre la revoca chiesta per quasi due anni da M5s e promessa invano dall’ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, è ferma al palo. In realtà, Conte aspetta le sentenze penali per muoversi in scia, senza rischiare.

    Se sulle Autostrade dei Benetton va in scena una stucchevole ammuina, sull’Ilva di Taranto il presidente del Consiglio ha scelto di fare la faccia feroce. E basta. Il 6 novembre, quando ArcelorMittal annuncia 5 mila tagli, Conte afferma che il rilancio di Taranto è «una priorità del governo». E la vigilia di Natale, si presenta in fabbrica tra gli operai per arringarli così: «Saremo intransigenti e lo Stato ci metterà la faccia». Quanto alla tagliatrice di fatturati (e teste) Lucia Morselli, amministratore delegato di Ilva, Conte la definisce «la mia antagonista». I lavoratori ci credono e gli battono le mani. Poi, non succede più nulla. E venerdì 5 giugno Arcelor presenta un nuovo piano, ben peggiore di quello firmato nell’autunno del 2018 con Conte Uno, in cui ci sono oltre 3.300 esuberi in cinque anni, ovviamente da gestire con gli ammortizzatori sociali e, tocco di classe, la richiesta di un finanziamento Sace da 600 milioni garantito dallo Stato, con la scusa dell’emergenza Covid-19.

    Ed è proprio sulle garanzie Sace che l’Illusionista del popolo sta dando il meglio di sé. Il colosso Fca, controllato dalla famiglia Elkann-Agnelli e alla vigilia dell’incasso di un dividendo straordinario da 5,5 miliardi di euro prima della fusione con Peugeot, ha negoziato un prestito da 6,3 miliardi con Intesa Sanpaolo, garantisce lo Stato. Italiano, non olandese. Il 16 maggio, quando esce la notizia e arrivano le proteste di mezzo Pd e dei Cinque stelle, Conte risponde che Fca «è un’azienda italiana che occupa tantissimi lavoratori». La prima affermazione non tiene conto del baricentro spostato a Detroit da Sergio Marchionne e riportato in Europa, ma a Parigi, dalla fusione con Peugeot. Dimentica che la sede legale di Fca è in Olanda e quella fiscale nel Regno Unito. Quanto ai «tantissimi» lavoratori, erano 120 mila nel 2004 e sono 30 mila oggi, pagati in parte dalla Fca e in parte da tutti noi, vista la montagna di cassa integrazione a gettone che il Lingotto continua a ottenere da anni, tra un «Piano Italia» e l’altro. Il 17 maggio, il premier torna sul tema e chiude il dibattito così: «Se Fca beneficia dei finanziamenti significa che rientra nelle disposizioni del decreto». Il grande Vujadin Boskov, quello di «rigore è quando arbitro fischia», non avrebbe saputo dir meglio. Qui bisogna però segnalare che perfino il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha sentito il bisogno di smarcarsi e in Parlamento ha affermato: «Stiamo scrivendo il contratto con garanzie di restituzione del prestito in caso di inadempimento Fca». Il contratto ovviamente sarà reso pubblico, anche se per ragioni di privacy il premier se lo terrà nel taschino, tra la pochette e i conigli.

    E dev’essere l’anno del coniglio, da qualche parte nel mondo, se il governo Conte non riesce ad ammettere che l’accesso al Mes, il micidiale Fondo salvastati, ce lo siamo già ipotecati da mesi alle spalle del Parlamento italiano. Il premier aspetta che i capi grillini lo facciano digerire alla base e che intanto arrivino da Bruxelles i soldi di qualche altro marchingegno meno smaccatamente «prodromo» (come direbbe Conte) della Troika. A dicembre, per il nostro premier il Mes era solo «inadeguato». E il 27 maggio scorso, l’ha messa quasi sul personale: «Il Mes non è il mio obiettivo anche per una questione di consistenza, al di là delle condizionalità e delle sensibilità politiche interne». Insomma, una cosa semplice e chiara, come «Non va bene, è sbagliato, è una fregatura, non lo vogliamo», non riesce a dirla. Ma il bravo illusionista sa giocare con le emozioni del pubblico.

    Il decreto Liquidità, affidato alle banche, fatica a far arrivare anche solo i finanziamenti da 25 mila euro nelle tasche dei cittadini e delle imprese. Molti istituti di credito chiedono adempimenti non necessari e al contempo propongono al cliente soluzioni più rapide e alternative. Conte sapeva come sarebbe andata a finire e allora, presentando il provvedimento, fece scena: «Alle banche chiedo un atto d’amore per l’Italia». Un decreto che per funzionare ha bisogno dei moti del cuore.

    Dove invece Conte si è sentito direttamente responsabile è sul salvataggio di Stato della privata, privatissima, Alitalia. Nella conferenza di stampa di fine anno, garantiva: «Cerchiamo una soluzione industriale, di mercato». Poi, con la scusa della pandemia, ha buttato tre miliardi di euro sulla compagnia e li ha nascosti nel calderone del decreto Rilancio, laddove, con la stessa cifra, avrebbe probabilmente rimesso a posto le rianimazioni di tutt’Italia. Il virus come cortina fumogena del ritorno dello Stato padrone. Ma Stato padrone non vuol dire Stato papà, perché Conte, nonostante l’ipertrofica produzione di decreti, si è dimenticato dei bambini e degli adolescenti, le vittime più silenziose e ubbidienti della quarantena.

    Il 30 gennaio, era andato a Bresso, nel Milanese, a visitare le scuole primarie. Aveva mangiato con gli alunni, ne aveva presi in braccio un paio e aveva ricordato che «dobbiamo parlare con i bambini» Poi, tornato a Roma, gli sono passati di mente. Il 3 giugno, dopo varie proteste dal mondo della scuola, l’Illusionista del popolo ha promesso che in autunno ci sarà il ritorno della «scuola in presenza». A parte l’orrendo neologismo, detta dal mago della dissolvenza non è del tutto rassicurante. n

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