Lo squalo uno. E va bene. Lo squalo due. E ce lo facciamo andar bene. Ma lo squalo tre?
Cosa diavolo sta succedendo a Ostia?
Bagnanti che scappano, pescatori che avvistano squali una mattina sì e l’altra pure: la squalomania impazza in quest’estate in cui il maltempo dà talmente alla testa che per inseguire il sole si pensa di rivoluzionare il calendario delle vacanze.
Spostare l’apertura delle scuole per prolungare le vacanze?
Sembra fantascienza, invece è una proposta reale, di cui si sta discutendo. Perché, comunque vada, le vacanze restano il nostro chiodo fisso.
Crisi o non crisi, nonostante gli allarmi di recessione e deflazione, come scrive giustamente Vittorio Feltri su Il Giornale, le città sono “chilometri e chilometri di saracinesche abbassate”. Tutti si lamentano, ma nessuno lavora. Oddio, non proprio nessuno: “su cento negozi chiusi, uno è aperto: i cinesi”.
E mentre quelli, che hanno fame di costruirsi un futuro più solido, sopperiscono con la loro volontà soggettiva ai morsi oggettivi della crisi, i brontoloni pigri vanno al mare.
A far cosa, visto che piove?
A sperare di avvistare lo squalo.
In fondo, se a Ostia l’hanno segnalato tre volte in pochi giorni, e segnalazioni si segnalano ovunque, perché non dovrebbero segnalarne uno anche loro?
Il “segnala lo squalo” è il nuovo gioco dell’estate italiana 2014.
Questa nuova mania ci fa sentire molto meno provinciali di quello che siamo. Esattamente come i dibattiti sul destino degli orsi, i lupi che ogni tanto fanno capolino, i serpenti che si acciambellano nelle docce di qualche sventurata e perfino i cinghiali che trotterellano di notte in certe autostrade.
Ci sembra tutto paranormale.
In molte zone dell’America del nord (per non parlare di quella del sud o dell’Australia, o dell’Asia) la natura, coi suoi predatori e le sue bestie selvatiche, partecipa attivamente a rendere la quotidianità dei suoi abitanti meno alienata, più darwiniana e ardimentosa.
Da noi, che siamo ben pasciuti e affezionati ai nostri riti oziosi, uno squaletto più piccolo di un tonno, totalmente innocuo, basta a innescare fobie e mode che si estendono a macchia d’olio.
Difficile resistere alla tentazione di puntare il dito contro qualche tronco e giurare di aver visto una pinna.
Cosa c’è di meglio di essere fra le centinaia di bagnanti che scappano dall’acqua per mettere mano ai telefonini e immortalare l’evento più emozionante della loro vita?
Siamo tutti alla ricerca di Nemo, il pesce pagliaccio Pixar, ma facciamo finta di essere a caccia di Bruce, come venne battezzato dagli addetti ai lavori lo squalo bianco protagonista del film di Spielberg.
E non ci rendiamo conto che, se al posto di un arpione alla Achab impugnamo un iPhone da hipster, stiamo vivendo l’avventura sbagliata.
Una sfida ben più emozionante sarebbe restare in città e rimboccarsi le maniche. Non per lottare contro i cinesi, che sono una benedizione per il nostro Paese inflaccidito, ma per renderlo un po’ più americano. E arpionare i nostri spread e i nostri Pil personali. Non certo per catturare i mostri veri, le cui origini vanno al di là di percezioni sociali e scelte politiche, e affondano nel mare di magagne del mercato mondiale: per avere l’illusione di non vivere una vita da pesci pagliaccio col pallino del “win for life”, ma una vita da squali pronti a vincere l’ Oscar.
Nota: Nemo vinse l’Oscar, Bruce no. La vita è piena di contraddizioni.