Soprattutto durante la pandemia, poter seguire i pazienti da remoto avrebbe dato ossigeno a un sistema sanitario in crisi. In Italia, però, l’assistenza online non è mai davvero decollata e ha collezionato una serie di occasioni mancate.
Dominga Salerno è una giovane dottoressa specializzata in geriatria, che nel 2013 aveva creato un servizio di telemedicina a domicilio, con tanto di di infermieri, per pazienti con scarsa motilità ad Avigliano, nel Cuneese. L’efficienza della sua iniziativa era stata citata su riviste scientifiche internazionali ma nel 2015, senza motivo, la giunta Chiamparino ha chiuso tutto quanto. «Avevamo coinvolto il Politecnico di Torino per realizzare teledialisi, radiografia e monitoraggio, ma è stata fatta la scelta di non dare seguito alla sperimentazione» ricorda Salerno. Amareggiata dell’esperienza, ha mollato la telemedicina e si è dedicata al lavoro in corsia. Di esperienze come queste se ne contano a decine in Italia. A parole, tutti dicono che una delle priorità della sanità in questa pandemia sia rafforzare la telemedicina, così da dare ossigeno a un sistema ospedaliero in crisi; che, costretto a seguire i malati Covid, non riesce a effettuare visite e controlli a molti altri pazienti con gravi patologie.
Potenziare la medicina a distanza permetterebbe inoltre di effettuare visite e controlli da remoto, con notevoli risparmi in termini economici. Secondo uno studio clinico del 2012 del Dipartimento della salute inglese, condotto sulla cura domiciliare di 6 mila pazienti cronici, è risultato che con l’uso della telemedicina, la spesa sanitaria calerebbe del 8 per cento e la mortalità del 45 per cento.
In Italia, nonostante le tante dichiarazioni di principio, la medicina a distanza è lasciata più al caso e all’iniziativa personale che all’organizzazione da parte delle istituzioni. Le linee guida in materia sono ferme a quelle dell’Iss del 2014, e alcune Regioni nemmeno le hanno recepite, come denuncia Mauro Bonomini, coordinatore del Nucleo di cure primarie Cardo Medico Massimo presso l’Ausl di Piacenza.
Bonomini ha realizzato un efficiente servizio di telemedicina per gli operatori sanitari di base a Fiorenzuola, e un sistema di tracciamento per i pazienti delle Rsa, compresi personale medico e infermieristico e visitatori, che ha permesso di avere un ricovero Covid free per 50 anziani ricoverati nella seconda ondata. «Per le comunicazioni con i pazienti, nella telemedicina, moltissimi medici usano ancora WhatsApp. Manca completamente l’organizzazione da parte di regioni e autorità sanitarie locali per potenziare i progetti. E la maggior parte di questi alla fine muore sul nascere».
Le idee spesso non decollano perché non ci sono le persone per farle funzionare. Come nel caso di un progetto creato nel 2007 a Bologna per anziani e cardiopatici, a cui venivano assicurati telematicamente elettrocardiogramma, controllo del peso e della pressione: vi avevano aderito Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Belgio, ma è stato abbandonato nel 2010 dopo aver completato l’iter di finanziamento perché la Regione Emilia-Romagna non è stata in grado di fornire personale dedicato a leggere i dati clinici dei pazienti inviati da remoto.
«La sanità dell’Emilia-Romagna, almeno per quanto riguarda la telemedicina, non ha fatto nulla» afferma Giovanni Rinaldi, bolognese, fisico ed esperto di salute digitale, nonché consulente dell’Iss per la telemedicina nel corso della prima emergenza Covid. «Siamo ancora senza tariffario, che è la base su cui poter effettuare qualsiasi servizio in questo settore innovativo». Già, perché anche quando le Regioni se ne occupano, spesso lo fanno in maniera approssimativa. Un esempio sono le recenti linee guida della Regione Lazio sulle televisite, a detta di molti dottori «farneticanti per complessità e farraginosità nelle procedure». Come quella dell’obbligo di accesso tramite Spid o la carta elettronica e l’uso di una Url regionale per i collegamenti audio e video con un codice di prenotazione.
«L’emergenza Covid paradossalmente ha peggiorato il quadro» sostiene Daniela Sgarbossa, responsabile dell’Osservatorio sulla sanità digitale del Politecnico di Milano. «Le iniziative prese dallo Stato hanno avuto carattere emergenziale, è mancato il coordinamento. Le Regioni hanno approvato delibere sul tema, ma senza dare indicazioni precise e univoche. Restano in piedi eccellenze isolate». Poi c’è il caso di progetti sottoutilizzati, come l’Advice della Regione Lazio: piattaforma creata per supportare i pazienti critici, utilizzata da alcuni ospedali, e quasi per niente da altri. Eppure le Regioni, anche prima dell’emergenza Covid, avevano molto discusso sul tema telemedicina, circa 450 delibere negli ultimi dieci anni; ma, come dice Angelo Mori Rossi, ricercatore del Cnr sull’E-Health, spesso non si sa esattamente a quali progetti siano rivolti e che fine abbiano fatto. «Numerosi programmi anche validi sono stati abbandonati, per mancanza di fondi, o per cambi al vertice della sanità. Non è un caso se la telemedicina è più avanzata in Veneto, dove si è mantenuta per dieci anni la stessa dirigenza sanitaria regionale. Altrove è tutto molto confuso, se non completamente assente».
Ancora una volta vale la pena citare l’Emilia-Romagna, dove un’iniziativa di teleconsulto per le comunità montane aspetta il via libera da tre anni. O, ancora, come il progetto diabete ideato da Giuseppe Passeri, esperto di stastistica e telemedicina, e consulente tecnico della Regione Lombardia, presentato un anno fa alla Fondazione Cariplo (che dovrebbe finanziarlo) ma che fatica a farsi largo fra i meandri della burocrazia.
A colmare il vuoto, e un business in forte ascesa, si muove intanto il privato. Già prima dell’emergenza Covid l’ospedale San Raffaele prevedeva un programma di televisita e teleconsulto domiciliare, assai criticato per i costi ma di palese efficienza: negli ultimi mesi oltre 20 mila pazienti hanno aderito al servizio, per 43 specialità cliniche. C’è chi, come il gruppo Santagostino di Milano, mette a disposizione videoconsulti di psichiatria: nel lockdown di marzo quasi tutte le prestazioni psicoterapiche sono avvenute in modalità digitale. E poi ci sono piccole realtà locali come la Gesan di Salerno, che ha offerto alla Asl 1 di Napoli la sua piattaforma Sic 2019, sorveglianza integrata Covid-19, grazie alla quale possono scambiarsi dati i medici di base, i tecnici di laboratorio e i pazienti. Molto attiva anche la Htn di Brescia, che coordina la telecardiologia in oltre 4 mila farmacie.
«Per la telemedicina in Italia vale un paragone nel gioco del calcio, con un attaccante che dopo un’ottima azione si ferma a cincischiare in area di rigore senza tirare. Delibere, linee guida, ma poi non si va mai in rete» riflette Maurizio Cipolla, presidente della Società italiana di telemedicina (Sit) della Calabria e consulente dell’Istituto superiore di Sanità. Gli fa eco il presidente nazionale della Sit, Antonio Gatti: «Su questo settore siamo alla preistoria. E glielo dice uno che fa telemedicina dal 1980. Eravamo pronti con il teleCovid per monitorare da remoto i pazienti, ma è tutto fermo. Come il piano preparato dall’Iss sulla telemedicina in pediatria. In gestazione da maggio, ma di cui non si sa più niente». Ora, nel Recovery fund, il governo ha annunciato lo stanziamento di 4,8 miliardi nella telemedicina. Sarà, il 2021, l’anno decisivo per la salute digitale o l’ennesima occasione sprecata?
