In Italia, sia negli ospedali sia nei centri privati, sono 18 mila le strumentazioni ormai obsolete: mammografi, tac, angiografi… Cresce così la preoccupazione di non poter garantire diagnosi affidabili. Con il Pnrr dovrebbero arrivare fondi per «aggiornare» le apparecchiature. Ma resta molto da fare.
Non solo carenza di medici e i pronto soccorso nel caos, le lunghe liste d’attesa, la fuga dei camici bianchi all’estero o nelle strutture private. Chi si rivolge al Servizio sanitario nazionale deve fare i conti anche con «l’archeologia» delle apparecchiature. Con il Covid, prevenzione e diagnostica hanno subìto una battuta d’arresto; solo da pochi mesi si è rimesso in moto il meccanismo, ma si è creato una sorta di effetto imbuto nelle strutture. Le apparecchiature che già in periodi normali faticavano a far fronte al fabbisogno, con l’esplosione della richiesta di analisi post-pandemia stanno mostrando i loro limiti, dovuti alla scarsa innovazione tecnologica di ospedali e i laboratori privati convenzionati. Gli effetti del tetto alla spesa per investimenti e del giro di vite della spending review si fanno sentire. Il Pnrr ha previsto oltre 4 miliardi di euro per la digitalizzazione e il ricambio delle grandi apparecchiature, ma il raggiungimento dei vari «target» individuati nei prossimi tre anni dipenderà molto dalla capacità di spesa.
Nel frattempo, il 71 per cento dei mammografi convenzionali ha oltre 10 anni, e l’84 per cento supera i 6 anni, l’età massima consigliata; anche il 54 per cento delle risonanze magnetiche chiuse ha oltre una decina di anni – e dovrebbe essere rinnovato ogni cinque – e il 48 per cento delle tomografie ha oltrepassato il limite massimo di sette anni.
La situazione è tracciata bene dall’Osservatorio «parco installato» di Confindustria dispositivi medici, l’associazione che riunisce le imprese del settore. Scopriamo che il 61 per cento dei sistemi per angiografia va oltre l’obsolescenza tollerata, e lo stesso vale per le camere di medicina nucleare e per il 75 per cento delle unità mobili radiografiche convenzionali (solo l’8 per cento ha meno di cinque anni). Complessivamente, sono 18 mila le apparecchiature di diagnostica per immagini ormai sorpassate.
Nonostante la mammografia sia l’esame di prevenzione principale per la diagnosi del tumore al seno, negli anni gli strumenti hanno subìto un peggioramento. L’età media degli apparechi convenzionali è passata da 11 anni a fine 2017 agli attuali 13,4 anni. Più contenuto l’aumento dell’età media dei mammografi digitali da 4,6 anni a 4,9 anni.
Le Tac, tomografie assiali computerizzate, per il 51 per cento dovrebbero essere sostituite. Se poi entriamo in camera operatoria, il monitoraggio dei parametri vitali è affidato a macchinari definiti «sistemi mobili ad arco». Essenziali nelle operazioni, dovrebbero essere al top delle novità tecnologiche, invece nel 57 per cento dei casi sono troppo vecchi.
Gli unici segnali positivi di aggiornamento riguardano gli ecografi portatili, nell’82 per cento dei casi acquistati meno di cinque anni fa, e per l’81 per cento dei radiografi mobili digitali.
Il report sottolinea che «accrescere l’attendibilità e la sicurezza di tali dispositivi è particolarmente necessario in un periodo in cui il 37 per cento degli italiani ha rinviato del tutto o in parte esami, visite e cure mediche per paura del contagio o per il sovraffollamento delle strutture impegnate nella lotta al coronavirus».
La situazione non è migliore per l’assistenza domiciliare. Ci sono 200 mila pazienti con il supporto di ventilatori, 100 mila in ossigenoterapia e 30 mila nutriti artificialmente per via enterale o parenterale. Spesso chi è curato a casa ha bisogno di più trattamenti contemporaneamente. Basta pensare a chi è affetto da Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) che necessita, nella fase più acuta, di supporto respiratorio continuo, alimentazione tramite sonda e assistenza riabilitativa.
Nonostante rientrino nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, non sempre tali interventi vengono effettivamente garantiti. Oppure può capitare che le apparecchiature ci siano, ma manchino i professionisti specializzati. Questo vuoto spesso viene colmato dal personale fornito dalle cooperative o da associazioni private che puntano solo al ritorno economico e, non essendo sottoposti a controlli, non hanno interesse a creare squadre di specialisti adeguatamente formati.
Secondo Confindustria, nel corso degli anni la strumentazione medica ha risentito di una serie di fattori. Tra questi, i pochi investimenti e finanziamenti dedicati alla sanità, l’assenza di innovazione nell’ambito delle generali politiche pubbliche di acquisto, oltre all’aver consentito livelli e logiche di rimborso delle prestazioni, sia in ospedale sia specialistiche, che non hanno incentivato l’ammodernamento tecnologico.
Una boccata d’ossigeno dovrebbe venire dal Pnrr. Per l’adeguamento dei macchinari sono previsti oltre 4 miliardi di euro, di cui circa 2,8 miliardi di euro per la digitalizzazione, oltre 1,4 miliardi per progetti in essere. Più di 1,1 miliardi di euro per le grandi apparecchiature: entro il 2024 ne dovrebbero arrivare almeno 3.100 in sostituzione di quelle obsolete o in disuso. E per il 2025 si dovrebbe realizzare la digitalizzazione di 280 strutture ospedaliere. Ma questi target rischiano di essere compromessi dalla tenaglia in cui sono finite le industrie che producono farmaci e dispositivi medici, strozzate da meccanismi come tetti di spesa e payback.
Nel Decreto Aiuti bis il governo ha confermato il payback sui dispositivi medici, che obbliga le aziende della Sanità a rimborsare la metà delle spese in eccesso effettuate dalle Regioni. L’allarme è stato lanciato da Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici, con le sue 5 mila imprese del biomedicale che rischiano di finire in ginocchio per la richiesta di 2 miliardi di pagamenti. «Questo meccanismo va cancellato subito e non sembri “il solito teatrino” fatto dalle imprese. È una batosta su una filiera già colpita dagli effetti del definanziamento del passato alla Sanità. Il payback rischia inoltre di abbassare il livello tecnologico dei dispositivi medici e quindi di diminuire la qualità delle cure».
«Non possiamo permetterci di perdere il treno dell’innovazione tecnologica» rincara la dose Pierluigi Marini, presidente di Acoi (Associazione chirurghi ospedalieri) e direttore Uoc Chirurgia ospedale San Camillo a Roma. «Capisco le questioni legate al bilancio ma è in gioco la salute degli italiani. Le possibilità di cura e guarigione da un tumore dipendono da uno screening tempestivo e ben fatto. Oggi si vedono tumori della mammella di dimensioni minime che con i vecchi mammografi non emergevano. La tecnologia è essenziale ma corre veloce e bisogna stare al passo».
Marini sottolinea che «il payback mette in difficoltà le aziende fornitrici di nuovi macchinari, con il rischio di perdere il treno dell’innovazione in un momento cui ci sono lunghe liste d’attesa da smaltire».
Così, dopo tre anni di pandemia e una pioggia di fondi (oltre 11 miliardi in più) per combattere il Covid, la Sanità si risveglia con i soliti abiti da Cenerentola. n
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