Lo strapotere dello streetwear, imposto dalle passerelle globali, aveva già da tempo archiviato stringate e abiti formali. Poi è arrivata la quarantena che ci ha abituati a tute, felpe e sneaker che ora si impongono come nuove divise da lavoro sia in smart working sia in ufficio.
«Che cosa mi metto per andare in ufficio?… È la domanda che Carrie Bradshaw, in Sex and the City, rivolge a se stessa, come un mantra, ogni santa mattina. Armadi spalancati, specchi ovunque e poi la scelta inizia sempre da lì, dalle scarpe, quelle Manolo Blahnik belle da perdere la testa, costose da capogiro: «Mi state dicendo che ho speso 40 mila dollari in scarpe e non ho un posto dove vivere? Sarò ridotta letteralmente ad abitare nelle mie scarpe…», dice con ironia e disperazione, in una delle puntate cult.
Eppure quelle pumps da mettere nel sacchetto e indossare appena arrivati sulla soglia dell’ufficio, sostituendole alle sneaker da passo serrato, sono ormai un feticcio vintage. In fondo, la chiusura della boutique di Manolo Blahnik, a dicembre del 2019, sulla 54ma strada di New York, è stato il segno definitivo di un’apocalisse dello stile vertiginoso a favore di quello streetstyle che negli ultimi anni ha sdoganato le sneaker sia sotto il tubino che sotto l’abito formale maschile. Così, per diverse stagioni, ci si è illusi che il ritorno di scarpe da ginnastica, infradito e Birkenstock fosse una moda passeggera, una delle tante boutade delle passerelle, come la scelta di mettere l’elastico in vita ai pantaloni più formali se non addirittura l’improbabile polsino alla caviglia che ha perfino conquistato Giorgio Armani con i suoi abiti maschili in velluto, morbidi e confortevoli come tute. Ma così non è stato e lo strapotere dello streetwear ha continuato a dilagare dalle strade agli showroom.
Poi è arrivata l’onda anomala del coronavirus e ogni speranza di tornare su tacchi e in doppiopetto è svanita. In quarantena e con lo smart working, il problema, sorto già alla prima chiamata su Zoom, è diventato quello di come vestirsi non per uscire, ma per sentire, anzi vedere, capo e colleghi. E se, in un primo momento, un maglioncino decente, un velo di rossetto, una camicia bianca hanno contribuito a costruire pose, più o meno composte, da mezzobusto televisivo, verso la fine del confinamento casalingo felpe e t-shirt hanno preso il sopravvento, perfino nelle conference call più impegnative. A dispetto di tutti quelli che si sforzavano di dare consigli su come affrontare lo smart working con stile.
A questo punto, la domanda legittima è: dopo un periodo così lungo di relax estetico e con il lavoro a casa ufficializzato ormai in diverse aziende, come ci rapportemo con i nostri vestiti?
Sull’argomento si è interrogato il New York Times Magazine che, sul numero di agosto, ha dato una risposta definitiva mettendo in copertina un pantalone della tuta, con elastico di ordinanza in vita, che sventola come una bandiera, con sotto il titolo: «Sweet pants forever», in tuta per sempre. Nell’articolo si parla di molte cose ma la riflessione principale è affidata alla direttrice di Vogue Usa, Anna Wintour: che, scomparso Karl Lagerfeld, s’è mostrata al mondo, anche lei, in tuta, il che potrebbe raccontarci molto sull’evoluzione dei lavoratori e del lavoro. Ora, Wintour ammette che la moda è in crisi di sistema e di identità, che l’overdose di sfilate e quindi di collezioni ha nauseato mercato e compratori e che la virata anticonsumistica è una bella gatta da pelare. Certo, il sistema è incartato su se stesso, fiacco e privo di idee. Senza contare che l’industria della moda globale (abbigliamento e calzature) subirà nel 2020 una contrazione del 27-30 per cento, con l’eventualità di tornare a una crescita compresa tra il 2 e il 4 per cento nel 2021. Mentre per i beni di lusso (moda, accessori, orologi, gioielli e beauty d’alta gamma) si stima una contrazione del 35-39 per cento, con un possibile rialzo tra l’1 e il 4 per cento, nel 2021.
Ma non è questo il punto: insieme al tech, la moda è l’industria che più è cambiata in questi ultimi dieci anni perché ne riassume gli sconvolgimenti. Anzi, come giustamente sostiene Kimberly Chrisman-Campbell, storica della moda e autrice di Worn on This Day: The Clothes That Made History: «A influenzare la moda non sono i trend di stagione o le proposte fatte in passerella dagli stilisti più richiesti al mondo, quanto piuttosto i cambiamenti storici epocali». È così dalla Rivoluzione francese, quando le donne abbandonarono le sottovesti perché simbolo dell’aristocrazia, fino alla liberazione femminista.
La verità è che siamo di fronte a un cambiamento epocale che impone altri rituali, un diverso rapporto con noi stessi e una nuova percezione di sé. Per esempio, sulla perdita di centralità dell’abito formale, soprattutto quello maschile, si ragiona da molto tempo e, quegli intervalli durante cui le passerelle tornavano a riempirsi di eleganti completi che cercavano di salvare la parte della filiera che li produce, sono stati solo operazioni di recupero e marketing.
Perché, in realtà, il lavoro contemporaneo è frammentato e spesso precario già da parecchio: sono poche le professioni, infatti, che richiedono oggi un completo d’ordinanza e Zoom potrebbe aver dato loro la spinta definitiva iniziata con le felpe e le infradito della Silicon Valley e cristallizzatasi poi nella tuta, in perfetto stile leisurewear o activewear, a seconda dei gusti e delle possibilità. Non a caso, tute e sneaker sono stati gli unici elementi d’abbigliamento che hanno registrato un aumento del 40 per cento di vendite online, nella sola prima settimana di blocco Covid-19.
Detto questo, codificare il nuovo abbigliamento da lavoro, ormai del tutto sovrapponibile a quello che indossiamo in casa o per uscire, non è affatto facile. Assodato che cravatta di Marinella o di Hermès, gemelli, décolleté con tacco a spillo, gessato e tubino attillato sono, per il momento, da conservare in naftalina, come si declinerà il look futuro? La parola va ai visionari della moda, ai veggenti dello stile. E, tanto per cominciare, c’è già chi parla di tendenza «quarcore», parola nata dalla crasi tra quarantena e normecore, ovvero lo stile senza pretese che privilegia gli abiti funzionali a quelli massimalisti. Ebbene, il quarcore riassume, a sua volta, due tendenze contemporanee, il «warcore», ovvero la predilezione per abiti e accessori militareschi (la balaclava, i pantaloni e il bomber da poliziotto, le scarpe con la suola a carro armato viste sulle passerelle) e il «prepper», dall’inglese «to prepare», fenomeno americano che unisce tutti coloro che si preparano a un’eventuale apocalisse, accumulando cibo: i cosiddetti survivalisti che studiano piani di sopravvivenza e si vestono di conseguenza.
Adesso, senza raggiungere la follia estetica dei prepper, pronti per la fine del mondo, di fatto i tessuti tecnici, l’abbigliamento di montagna portato in città, i giubbini multitasca, i pantaloni cargo e le sneaker con le suole a carro armato non sono forse un assaggio, per quanto blando, della filosofia da survivalista? Intanto, stando sempre a quanto affermano i trendsetter, e tenendo presente che la moda è tutto e il contrario di tutto, c’è chi sostiene che il completo formale potrebbe addirittura ritornare a essere una scelta di stile più che un obbligo formale.
Insomma, in questa ennesima apocalisse Millennial, potremmo scegliere di mescolare abbigliamento confortevole con quello funzionale militare, l’abito sartoriale sdrammatizzato da elementi dello streetwear, tessuti poveri e naturali con materiali iper tecnologici, non inquinanti e preferibilmente non costosi. Su una cosa non ci sono dubbi: sul fatto che il massimalismo tutto loghi e stravaganza ci sembrerà decisamente fuori dal tempo. Siamo pur sempre sopravvissuti a una pandemia e un po’ di sobrietà dovremmo averla interiorizzata. Almeno per il momento.
