Le passerelle diventano un ibrido: un po’ «fisiche» e un po’ «digitali». Il racconto delle creatività si è adeguato ai tempi del Covid.
Una nuova parola si aggiunge all’esperanto composito del mondo della moda: si tratta di «phygital», un termine a dire il vero non bellissimo ma perfetto nella sua concretezza semantica, nel definire l’inedita tipologia degli attuali appuntamenti di moda internazionali, da New York a Parigi, passando per Milano, dove la fashion phygital week, ovvero la settimana di sfilate per la primavera-estate 2021, in parte dal vivo e in parte digitale, si è da poco conclusa.
Dopo l’esperimento di luglio, piuttosto straniante, delle sfilate mostrate solo online, molti tra gli addetti ai lavori hanno confidato in un totale ritorno «live» delle passerelle milanesi, ma così non è stato: se Venezia ha tentato di mettere in piedi un red carpet, illuminato da qualche diva internazionale, influencer e tronisti, Milano ha scelto di aspettare. Non solo perché la situazione Covid-19 è ancora critica, sia in Europa che negli Usa, ma anche perché sfilare comporta costi molto alti per la maggior parte dei marchi, in particolare per i più piccoli, e oggi più che mai deve valerne la pena.
Se investire in cambio di visibilità è l’imprescindibile mantra, allora a poco servono gli apparati miliardari delle passerelle: per attirare un nuovo pubblico con contenuti su misura possono bastare Vogue Runway, la neonata Runway360 che vede American Express come socio fondatore, per non parlare di TikTok con i suoi soliti troppi hashtag #TikTokFashionMonth, #GetTheLook e #Fashion101.
In realtà, però, il tema è un altro. Qui non si tratta solo di visibilità e di catturare compratori attraverso nuovi canali: la riflessione è ben più profonda perché tempi eccezionali necessitano di soluzioni altrettanto originali. Inutile guardare con gli occhi del passato l’industria della moda, soprattutto durante la fashion week che costituisce l’apice della sua rappresentazione. Per questo, l’astioso articolo pubblicato da Le Figaro è parso miope nelle sue argomentazioni. «Che senso ha sfilare se non ci sono i media, nessun buyer, nessuna influencer, modelle, parrucchieri, truccatori, set designer?», si è chiesta la giornalista Emilie Faure, nel pezzo titolato «Sfilate milanesi, cronaca di un fiasco annunciato». Che però, per fortuna, fiasco non è stato.
Di certo, la domanda è legittima, lo è riferita a tutte le passerelle delle capitali della moda, Parigi compresa, e lo è ancor di più se si pensa ai circa 40 miliardi di euro che l’evento assicura, ogni stagione, a Milano e che sono venuti a mancare. Ma questo non toglie che la domanda sia ancorata al passato: ora i parametri sono ben diversi e differente deve essere il modo di analizzare le cose. Non sono arrivati fisicamente i giornalisti, i buyer, gli influencer da instagrammare? Pazienza, c’è però il mondo intero in diretta.
Sarebbe miope non accettare il fatto che il modo di comunicare la moda è completamente mutato. Nel momento in cui non c’è più l’esclusività dell’invito perché chiunque può vedere lo show online; nel momento in cui le top model sono sostituite da ragazze scelte attraverso uno street casting; nel momento in cui la fruizione è diretta e non si avvale più della narrazione scritta o fotografica della stampa perché ciascuno guarda, analizza e giudica in prima persona ciò che vede in passerella, è innegabile che siamo di fronte a un cambiamento radicale dei codici. Se si aggiunge, poi, il fatto che in alcuni casi ciò che si vede può essere perfino acquistato, in base alla formula del «see now buy now», il dado è tratto.
In fondo, negli ultimi 10 anni, la moda ha già attraversato la progressiva perdita di centralità dell’abito nella società e l’affermarsi di nuovi modi di fare shopping, eppure è riuscita, anche se appesantita dal suo carrozzone novecentesco, a trovare altre forme di espressione e interpretazione di ciò che le succedeva intorno. Ora siamo di fronte a una «risignificazione» dei codici e la settimana di collezioni milanesi lo ha dimostrato.
Basti pensare all’evento digital di Prada, uno dei più attesi della stagione perché inaugurava il nuovo corso di collaborazione tra Miuccia e il designer belga Raf Simons. Per il loro debutto hanno mandato online Dialogues, non solo uno show di 40 look all’interno di una stanza monocromatica, sovrastata da telecamere-lampadario, ma anche una conversazione tra i due cerebrali designer e il pubblico che, in diretta, ha potuto inviare loro alcune domande. Attenzione, non un’intervista intavolata tra i giornalisti e i due stilisti ma un dialogo con persone comuni, c’era perfino una ragazzina di 10 anni. Finita la sfilata virtuale, quelle domande che si visualizzavano sullo schermo in font Prada (finte, reali, selezionate ad hoc, non importa), hanno riscritto il modo in cui due tra i designer più influenti della moda degli ultimi 30 anni si raccontano e il ruolo che occupano all’interno dell’industria.
C’è in quella conversazione una ricerca del contatto attraverso il digitale molto affine al culto della personalità ai tempi di TikTok. Mentre loro parlano, il mondo è lì a guardarli: a cominciare dagli spettatori in Cina, dove le vendite post lockdown sembrano segnare un’inversione di tendenza in positivo. E alla fine è questa la «Prada-ness»: la capacità di rimanere al passo con la grammatica dei tempi.
Sullo stesso piano di modernità comunicativa si colloca l’operazione della maison Valentino. «Il mio lavoro è dare una visione della bellezza rispetto al mondo che stiamo vivendo e la diversità ora è una forma di bellezza» spiega il direttore creativo Pierpaolo Piccioli che ha lasciato i saloni stuccati degli hôtel particulier parigini per sfilare live in uno spazio industriale a Milano, facendo indossare la meravigliosa collezione, appunto, a ragazzi di origini, fisicità, latitudini diverse. «Ho pensato alle persone e non alle modelle, ho mantenuto i codici della maison ma cercando di darle una nuova identità più inclusiva ed empatica. Ho fatto un’operazione di ri-significazione, necessaria dopo un importante periodo di riflessione» conclude Piccioli, il più romantico dei creativi.
Quindi, si salta la mediazione della stampa, si fa a meno degli influencer e si aboliscono le top model a favore di un approccio più diretto, forse più umano, sicuramente più empatico. La ricerca di contatto, abbinata al tentativo di rendere democratica la moda, ha spinto Giorgio Armani a mandare in tv il suo show, preceduto da un documentario sul suo lavoro. Un esperimento parzialmente riuscito (con uno share del 3 per cento) che probabilmente rimarrà unico nella storia del brand, non a caso lo stilista ha già esternato la sua nostalgia per la passerella con tanto di parterre e a febbraio sfilerà con la haute couture di Armani Privé, sempre a Milano.
Alla fine, il punto non è fare sfilate fisiche o digital, passerelle per pochi o in streaming urbi et orbi, la questione sta nel linguaggio, nella necessità di avere qualcosa da dire e di trovare un nuovo modo di dirlo. Se il racconto digitale diventa la semplice trasposizione della classica sfilata, la noia è assicurata. Al contrario, se gli abiti sono mostrati attraverso una narrazione ricca di senso, tutto diventa più interessante. Come è accaduto con i digital show di Msgm e soprattutto di Marni.
Insomma, l’estrema volubilità del tempo che viviamo richiede uno sforzo immaginifico e interpretativo e se non lo chiediamo ai creativi della moda, che da sempre lavorano su queste corde, da chi possiamo pretenderlo?
