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Forest Whitaker: «Il mio io, diviso tra gangster e Malcom X»

Forest Whitaker: «Il mio io, diviso 
tra gangster 
 e Malcom X»

Nella serie Godfather of Harlem (su Disney+) è padre e marito devoto alla famiglia, giocatore di scacchi, attento alle tematiche razziali e, al contempo, mafioso, assassino e spacciatore. Il premio Oscar racconta a Panorama se stesso e i retroscena della fiction di cui è protagonista. E sulla prossima stagione rivela che…


E’ sera, un venerdì, quando ci è permesso chiamare Forest Whitaker, alias Bumpy Johnson nella nuova serie tv Godfather of Harlem. All’altro capo di Zoom, dove un monito ricorda di non nominare le tre «P» (pandemia, politica, privato), dovrebbe fare capolino il volto vagamente asimmetrico del premio Oscar per L’ultimo re di Scozia. Invece lo schermo è nero e la voce arriva lontana, ovattata. Quasi che Whitaker, strenuo tifoso di Barack Obama, abbia cercato l’anonimato per potersi concedere il vivavoce e, magari, lo spostamento da una stanza con l’altra. «Non ero convinto di voler interpretare e produrre lo show» ammette l’attore, già protagonista di Criminal Minds: Suspect Behavior ed Empire, spiegando come una prima lettura dei copioni gli sia bastata per capire che la storia del gangster afroamericano gli avrebbe permesso di raccontare «gli anni più esplosivi per gli Stati Uniti d’America». Godfather of Harlem, disponibile su Star, sesto brand della piattaforma streaming Disney+, è la cronaca di una (vera) vita criminale, colta però nei suoi attimi finali. Ellsworth Johnson, «Bumpy» per via di una sporgenza sulla nuca, ha governato Harlem, periferia nord di New York, per quarant’anni, primo ragazzo nero ad aver sfidato la criminalità bianca. Ma, di come sia arrivato a essere il Padrino della propria comunità, Godfather of Harlem non lo racconta. La serie televisiva, già rinnovata per una seconda stagione, si limita a ricostruire quanto successo a Johnson nel 1963, quando ha fatto ritorno ad Harlem dopo aver scontato una pena di 11 anni nel carcere di Alcatraz, California.

Perché non raccontarne anche gli esordi criminali?

Innanzitutto, per una ragione pratica. Non avrei potuto interpretare il giovane Bumpy Johnson. Poi, per una ragione storica. Il 1963 e il 1964, anni in cui è ambientata la seconda stagione di Godfather of Harlem, sono stati cruciali per lo sviluppo degli Stati Uniti. Nello spazio di 12 mesi, si è formato il Movimento per i diritti civili, è stato firmato il Civil Rights Act, poi l’Equal Pay Act. È stato assassinato Kennedy. Fatti passati, ma l’impressione, guardando la serie, è che venga detto tanto sul presente. Ed è così. Credo che, guardando lo show, gli spettatori possano ritrovare la determinazione della gente di allora: capire come fosse decisa a combattere per una vita migliore, per i propri diritti, come volesse far sentire la propria voce, chiedere giustizia e considerazione. Da un punto di vista storico, lo show afferma che esiste una forte connessione tra il sistema politico e lo stato civile e questo ci ha dato modo di mettere a fuoco alcune criticità del presente.

Si riferisce al Black Lives Matter?

Mi riferisco alla brutalità della polizia, alla crisi degli oppioidi, al bisogno di essere visti, alla voglia di fare gruppo per rivendicare i propri diritti, alle crescenti divisioni interne agli Stati Uniti.

Perché, sulle prime, non ha voluto produrre lo show?

Non ne sono sicuro. Forse, non mi convinceva la materia. Poi, quando abbiamo cominciato a parlarne, ho messo a fuoco il legame tra Johnson e Malcolm X. Mi ha entusiasmato, allora, la possibilità di raccontare non solo la relazione personale tra i due, ma il legame di questi con la comunità e della comunità con le proteste nate in seno al Movimento per i diritti civili.

Un gangster e un leader politico. Qual era, esattamente, il legame tra Malcolm X e Bumpy Johnson?

Purtroppo, credo che i ragazzi di colore, e più in generale chiunque sia oppresso e abbia poche opportunità per eccellere e superare i propri limiti, cerchi unione contro l’oppressore attraverso azioni criminali. E questo è quanto successo allora. Malcolm X era un’anima pura, ma ha sbagliato. Ha incrociato la propria strada con la criminalità. È stato in galera e ne è uscito da leader dell’islam. Ha cominciato a combattere e protestare per un domani migliore e nelle proteste si è creata unione: Bumpy Johnson e Malcolm X sono l’American dream, perseguito con ogni mezzo necessario. Johnson, nel cinema, ha ricevuto diverse interpretazioni.

Come ha creato la sua?

Ho fatto ricerche, parlato con persone che lo hanno conosciuto. Quel che più mi ha attratto è stata la contraddittorietà di Johnson, il suo essere un padre innamorato della sua bambina, un marito devoto, un giocatore di scacchi, un uomo attento alle esigenze della comunità e, al contempo, un mafioso, un assassino, uno spacciatore. Era una persona estremamente privata, un calcolatore. Ogni sua azione era misurata.

Non ha guardato nessun film per entrare nel personaggio?

Assolutamente sì. Ho guardato Il Padrino, Scarface e C’era una volta in America.

E, di lì, la scelta di avere Vincent D’Onofrio come capo della mafia italiana.

Ci sono attori straordinari, nella serie. Sul set, si è creata un’atmosfera bellissima e tutti hanno creduto sin da subito nel progetto.

Anche nella sua parte musicale?

Sì, la musica è determinante nello show, gli conferisce un significato ulteriore. Quando abbiamo cominciato a lavorare alla serie, abbiamo iniziato a pensare alla colonna sonora, a come avrebbe dovuto essere il punto di unione di passato e presente. I suoni di oggi (rap per lo più, ndr) sono serviti per raccontare emozioni di ieri. E lo stesso accadrà nella seconda stagione.

La storia di Johnson ha un che di cinematografico. Non avrebbe preferito farne un film?

Credo che la serialità televisiva ci abbia permesso di scavare in profondità, fotografando il cambiamento: la trasformazione e la crescita della figlioletta, l’evoluzione della moglie di Johnson, da compagna a figura potente. La qualità, poi, non ha nulla da invidiare al cinema.

Cosa le è rimasto di questo personaggio?

Sul set, sono stato rimproverato. Me ne andavo in giro con questa mia faccia seria, tesa. Mi hanno preso in giro: «Come sei rigido» dicevano. Ho deciso che avrei imparato a sorridere un po’ di più, a ridere un po’ di più.

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