di Giorgio Ieranò
Emilio Isgrò una volta sui giornali ci scriveva. Adesso invece li cancella. Così come ha cancellato l’Orlando furioso, la Costituzione, la Treccani, l’Inno di Mameli. Le “cancellature”, quelle pagine ingombre di neri inquietanti che decretano la morte della parola ma al tempo stesso alludono a un discorso invisibile, sono il marchio di fabbrica di Isgrò. Il segno inconfondibile che ha fatto di questo siciliano appassionato e sornione, nato 75 anni fa a Barcellona (Messina), uno dei maggiori artisti contemporanei. La definizione artista contemporaneo è limitativa per uno come Isgrò che, vero geniaccio italico d’altri tempi, è anche poeta, narratore, drammaturgo.
Trent’anni fa, Isgrò s’inventò le Orestiadi di Gibellina, straordinario esperimento di arte totale che fece rivivere Eschilo nel Belice devastato dal terremoto. Un’idea del sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, alla cui memoria Isgrò ha ora dedicato il poemetto I funerali di Corrao, appena pubblicato dall’editore Aragno. L’avventura rivive anche nel volume L’Orestea di Gibellina e gli altri scritti per il teatro (Edizioni Le Lettere, a cura di Martina Treu), mentre esce Come difendersi dall’arte e dalla pioggia (Edizioni Maretti, a cura di Beatrice Benedetti), raccolta di scritti sulla contemporaneità. E non è finita: il 20 giugno, alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, aprirà una mostra (Modello Italia, fino al 6 ottobre, catalogo Electa) che ricostruisce un’avventura artistica lunga mezzo secolo.
“Sono diventato artista per caso, quasi mio malgrado” racconta Isgrò nel suo atelier alla periferia di Milano, un’ex sartoria in zona viale Monza, quartiere di immigrati vecchi e nuovi. “Ho iniziato come giornalista, un mestiere che mi appassionava. Alimentava quella curiosità che è la molla anche del mio lavoro d’artista. Ho imparato di più facendo il cronista che frequentando il mondo dell’arte. Fra gli artisti sono sempre stato un cane sciolto. Non ho mai fatto gruppo”.
In compenso si è legato a molti protagonisti del Novecento: Eugenio Montale, per esempio. “Lo conobbi a Milano. Frequentava la casa di Elio Vittorini, sui Navigli. Non per le conversazioni letterarie, sa? È che andava matto per il pesce stocco alla messinese che gli preparava la moglie di Vittorini. Ogni domenica era lì a pranzo. Gli ero simpatico, aveva apprezzato le mie prime poesie. Quando andai a lavorare al Gazzettino di Venezia, veniva a trovarmi e, quando non c’era la moglie Mosca, era il mio braccio che lo aiutava a scendere i gradini dei ponti. Poi io dichiarai la ‘morte della parola’ e lui la prese come un affronto personale. Le passeggiate veneziane finirono”.
Intanto aveva conosciuto anche Ezra Pound.
Si chiudeva in interminabili silenzi, non so se per disdegno o per senilità. Una volta, durante un viaggio in macchina verso Padova, lo incalzai di domande a cui oppose il solito mutismo. Poi mi guardò e mi disse soltanto: “Io nella vita ho sbagliato tutto”.
Peggy Guggenheim invece la mandò a cercare…
Chiese un’intervista per raccontare la sua collezione. “Guardi che opere magnifiche” mi diceva. “Lo spieghi ai veneziani”. Parrà strano, ma allora nessuno le dava retta.
Vide anche John F. Kennedy, pochi mesi prima di Dallas.
Il giornale mi aveva mandato a seguire un suo tour elettorale. Lui capì che ero italiano dalla cravatta, che avevo comprato in via Monte Napoleone. Posso dire di essere stato, mio malgrado, un ambasciatore del made in Italy.
Intervistò anche Giorgio De Chirico.
Lo considero un maestro. L’hanno usato come bandiera contro le avanguardie, però lui era più avanti di tutti. Mi affascinava il suo disincanto da eterno bambino.
Anche l’idea delle cancellature le venne al giornale?
Correggevo gli articoli di Giovanni Comisso… una sofferenza. Scriveva in modo contorto, i suoi pezzi arrivavano in fogli zeppi di cancellature. Mi accorsi che le cancellature alla fine avevano più peso delle parole stesse. Era il 1962: fu un’illuminazione.
Nel 1964 con la sua opera Dio è un essere perfettissimo come una Volkswagen riuscì a fare infuriare sia la fabbrica di automobili sia la Chiesa. Si sente un provocatore?
Maurizio Cattelan mi ha fatto la stessa domanda nel catalogo della mostra romana. Gli ho risposto con un testo pieno di cancellature. Quando tutti provocano, la provocazione non ha più senso.
È il mercato che decide tutto oggi?
Prendersela con il mercato è un vecchio vezzo degli artisti. Certo, un tempo per un artista approdare a un museo era un traguardo. Adesso invece si comincia esponendo in un museo. Significherà qualcosa, no?
Quanto è cambiata l’arte in 50 anni?
L’arte rischia di ridursi a routine. Un medium fra tanti, che non esprime malessere ma fabbrica consenso. Tutto si è estetizzato, anche la politica. Voler piacere è legittimo, voler compiacere è altra cosa.