Una cosa è certa: dopo il Covid-19 le cose non saranno come prima. Secondo gli esperti, questa pandemia sta accelerando metaformosi già in atto. E non è sempre un male. Ecco come cambieranno consumi, politica, economia, musica, cinema, negozi e hotel
«Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua». E speriamo che sia calda, molto calda. E che i pomeriggi siano lunghi e azzurri così da stordire il virus, anzi da ucciderlo. In fondo lo dicono tutti, virologi, epidemiologi, microbiologi, ciascuno con la propria temperatura emotiva, da Walter Ricciardi a Ilaria Capua, a Roberto Burioni, tanti sostengono che «al sole, a 24 gradi centigradi e con l’umidità all’80 per cento, il virus muore in due minuti». E noi gli vogliamo credere, è la nostra illusione preferita, questa volta senza beneficio d’errore, sia chiaro. Però, come sarà l’estate antivirus è solo l’inizio di perplessità e previsioni future. Niente spiagge affollate, niente discoteche in riva al mare, ombrelloni con separé e spaghetti alle vongole servite con la mascherina: ci faremo andare bene tutto, è sacrosanto.
Ma dopo l’estate, cosa accadrà? La domanda è martellante, ha un respiro più lungo e affannoso perché segue il ritmo dell’incertezza e si formula di mente in mente, di bocca in bocca, soprattutto in questa seconda fase della pandemia: come sarà la nostra vita all’insegna del social distancing? Ci sarà un nuovo ordine supremo di rapporti sterilizzati, «germ-free», distanti e sottovuoto oppure una riscoperta della qualità umana e della stretta di mano anche se con i guanti in lattice? Faremo come la scrittrice americana Florence King che, nella sua rubrica «L’angolo della misantropa» sulla National Review, raccontava di aver acquistato un’auto e aver fatto togliere tutti i sedili tranne quello del guidatore, per poter essere libera di non dare passaggi a nessuno? Oppure, annoiati da noi stessi, non faremo altro che circondarci, anche a debita distanza, di parenti, amici, conoscenti e sconosciuti con cui attaccar bottone durante la fila al supermercato?
Una cosa è certa, dopo il Covid-19 le cose non saranno come prima. Secondo gli esperti, le pandemie, più che l’origine di svolte epocali, possono essere considerate spinte significative verso alcuni cambiamenti già in atto, cioè acceleratrici di rivolgimenti strutturali, oppure concause di rottura degli ordini economici e politici esistenti. È stato così con la Peste nera del XIV secolo e con l’influenza Spagnola dopo la Prima guerra mondiale.
FRANCESCO MORACE: «CI SARA’ UN RITORNO ALL’ESSENZIALE, ALLE COSE SEMPLICI, COMPREREMO COSE CHE CI FANNO STARE BENE»

di Antonella Matarrese
Le pandemie fanno impennare la richiesta di nuove idee, innescano trasformazioni che si ritenevano necessarie. Più complicato è capire come sarà la reazione del singolo, quali saranno le esigenze individuali a cominciare, per esempio, dalle abitudini d’acquisto di ciascuno. Di questo parliamo con Francesco Morace, sociologo e presidente di Future Concept Lab, centro studi milanese con diversi innesti nel mondo, che si occupa della previsione dei comportamenti sociali nei confronti dei consumi e che analizza gli effetti dei cambiamenti sulla società e sulla grammatica del marketing.
Cominciamo dal presente: in base alle sue ricerche, che tipo di reazione ci sarà rispetto all’attuale Fase 2?
Vorrei premettere che tutto quello che dirò a proposito delle persone, dei comportamenti e dei valori è anche frutto di una grande raccolta di storie sia attraverso i nostri social sia con testimonianze dirette: tutte le settimane, a partire dall’inizio di marzo, abbiamo chiesto di parlarci dell’evoluzione del loro umore a livello individuale e famigliare. Se all’inizioha prevalso la paura e la necessità che tutto finisse al più presto, dopo un mese e mezzo le persone hanno cominciato a dare priorità nuove agli obiettivi della loro vita futura. Si è passati da una prima fase di reazione istintiva – «mi chiudo in casa per sfuggire al nemico» – al «resto a casa per stare con i figli, magari adolescenti, per recuperare un rapporto da tempo frammentato, per cucinare insieme, per studiare, leggere, pensare a me stesso». Non è stato facile adattarsi all’isolamento ma, piano piano, si è insinuata la gioia di poter gestire il tempo in maniera completamente autonoma, a cominciare da una libera routine giornaliera che ad alcuni dispiacerà abbandonare.
Cioè lei sta dicendo che, dopo 50 giorni di domiciliari, alcuni si sono ricreati un ecosistema su misura, un livello zen di vita personale che ora non vogliono perdere?
Esatto, in alcune persone è successo più o meno questo. Come se la ritualità casalinga avesse spezzato l’automatismo distratto della nostra vita pre Covid-19. Le giornate passate tra lavoro, letture, musica di sottofondo, chiacchierate al telefono, finestre aperte hanno dato un nuovo respiro alle nostre vite. Ed è un po’ un paradosso, perché il virus attacca proprio il sistema respiratorio. In fondo cosa si è fatto nelle case, nelle prime settimane? Si è guadagnato spazio, si è buttato il superfluo. Una delle cose alle quali non rinunceremo in futuro, anche quando sarà superata la crisi, perché avere un respiro intorno a noi sarà fondamentale. Gli open space, per esempio, soprattutto lavorativi, dove le persone sono gomito a gomito e spesso costrette a mettere le cuffiette per non essere distratte dalle chiacchiere altrui, ecco, non avranno vita lunga.
Più respiro intorno a sé significa anche minimalismo, quindi pochi mobili, meno oggetti, meno vestiti. Saremo portati a comprare con più moderazione?
In un certo senso, sì. Ma attenzione, non è un neo pauperismo e non è una decrescita felice. È una nuova forma di selezione nelle scelte d’acquisto. E tale selezione sarà una inedita forma mentale anche nelle relazioni: non è vero che non torneremo più ad abbracciarci, ma sceglieremo le persone con cui farlo, senza ipocrisia. Questo è un po’ la reazione alla famosa liquidità di Zygmunt Bauman, alla modernità fluida. Oggi questa evanescenza è stata superata dalle priorità, abbiamo capito che vale la pena stare con i figli, con gli amici cari e pochi altri e avere relazioni più profonde, perfino nel lavoro. Meno contatti, pochi like e più contenuti. Anche l’uso della tecnologia subirà trasformazioni perché verrà usata per abilitare relazioni umane e migliorare la qualità delle nostre vite.
Ritornando agli acquisti, saremo più selettivi, ma su che cosa ci concentreremo?
C’è una sorta di legge di compensazione per cui abbiamo più tempo e meno spazio. Nel tempo sceglieremo cose che sono più rilevanti, quindi nei consumi spenderemo di più per le cose che ci sono mancate, anche quelle semplici, come il cappuccino e la brioche la mattina oppure la partita di tennis il mercoledì, ma faremo a meno dei dieci aperitivi ai quali si andava per via della sindrome del «mi sono perso qualcosa» che ci portava in modo ossessivo a usare i social. Sarà un «back to the basic», come dicono gli anglosassoni, un ritorno all’essenziale. In fondo, si è già visto: nei supermercati non sono mancate le merendine ma il lievito e la farina perché fare il pane o la pizza è diventata un’azione carica di senso e perfino piacevole.
Oltre alle scelte basiche, che tasso d’incidenza avrà la vanità?
Intanto va detto che il corpo sarà al centro di una nuova attenzione nei consumi, ma con una nuova consapevolezza che va oltre l’apparenza. I giovani riconquisteranno la dimensione sportiva molto più di prima, la cura di sé sarà il fulcro di una vera rivoluzione. Una cura non solo estetica ma improntata alla tutela delle proprie energie vitali. Il benessere sanitario, fisico e mentale sarà il senso principale dell’esistenza. In questa ottica, si richiederà che il lavoro diventi meno frenetico, il cibo sia più sano, la moda sia più rispettosa della diversità, la mobilità sia meno stressante, privilegiando nelle città biciclette e monopattini elettrici. Cose che in parte erano già in atto e verranno radicalizzate dalla quarantena. E poiché saranno tante persone a farlo, non apparirà più una stranezza.
E le previsioni per la stagione delle vacanze ormai imminente?
Intanto, molti lavoreranno in agosto come è giusto che sia. Inoltre, non ci saranno lunghi spostamenti in aereo ma, come negli anni Sessanta, si recupererà il viaggio in macchina con la famiglia, forse solo per uscite fuori porta. Alle città d’arte si preferirà la provincia italiana, alle lunghe file davanti ai musei le passeggiate in montagna. Le mete saranno i piccoli centri, i borghi abbandonati e magari si andrà a Bergamo e dintorni per restituire alle persone e a quei luoghi quanto è stato tolto dal virus. Poi, sia chiaro, i ricchi andranno come sempre nelle isole deserte, le raggiungeranno in aerei privati, avranno itinerari privilegiati e protetti, visiteranno i musei in solitaria e gli albergatori potranno salvarsi solo con la clientela di lusso. Perché il distanziamento sociale sarà anche quello tra ricchi e meno ricchi. Eppure diversi economisti, a cominciare dal Nobel Joseph Stiglitz, parlano di nuove forme di capitalismo, di parabola discendente della globalizzazione e di Green New Deal… Non credo che ci sarà la rivoluzione, il capitalismo reggerà ma si trasformerà in economia civile, con un incontro più virtuoso tra pubblico, privato e comunità. Un modello di imprenditoria illuminata all’italiana, non con la filantropia anglosassone che serve a lavare la coscienza, ma con un reale impegno dell’azienda sul proprio territorio. Per quanto riguarda la globalizzazione, anche in questo caso non si tornerà indietro completamente ma sarà meno estrema, si eviteranno gli influssi spietati della finanza e tutto sarà più temperato. In fondo, il reshoring in Italia è già in atto da un po’ di tempo. Non credo neppure nell’ecologismo militante alla Greta Thunberg, ormai è chiaro che la sostenibilità deve essere un compito comune e anche in questo caso la pandemia funzionerà da acceleratore. Rallentare i tempi, liberare lo spazio, consumare con intelligenza, sono tutte forme di ecologia.
Quindi niente idee radicali?
No, sarà il momento dei grandi progettisti, di quelli che avranno la visione di costruire un mondo migliore. Sarà il momento di chi immagina qualcosa, delle utopie realizzabili per una società possibile. Bisogna ragionare su nuovi paradigmi, più profondi, della durata ventennale e che puntino alla rinascita dell’Italia tra etica ed estetica aumentata. Uscire da una vicenda come questa significherà avere una maggiore attenzione alle cose belle che durano un vita e che sono fatte con il rispetto delle persone e dell’ambiente. E chi se non l’Italia potrà rilanciare nel mondo una visione estetica?
USA CINA: PROVE DI NUOVA GUERRA FREDDA

di Guido Fontanelli
Le due superpotenze saranno politicamente ed economicamente ancor più divise nel mondo post-pandemia. E l’Europa? Sarà «a trazione» tedesca e dovrà faticare per trovare altri equilibri.
Come sarà il mondo dopo la Grande Pandemia? La guerra contro il coronavirus ridisegnerà i rapporti di forza tra le grandi economie? Quando Wuhan era solo il nome di una sconosciuta città su una mappa cinese, la situazione più o meno era questa: una progressiva ritirata degli Usa dall’impegno internazionale sotto la bandiera trumpiana dell’«America first»; un’avanzata della Cina in Asia, in Africa e anche in Europa sulla spinta di grandi progetti infrastrutturali e di telecomunicazioni; un’Europa in frenata, con la locomotiva tedesca in affanno, alcuni Paesi attratti dalle avances cinesi e dalle sirene sovraniste, il Regno Unito in uscita da un’Unione in calo di gradimento. Tale scenario sarà probabilmente sconvolto dalla crisi epocale che viviamo.
Il rischio maggiore è precipitare in una nuova Guerra fredda. Pericolo evocato da Stephen Roach, docente alla Yale University ed ex presidente della Morgan Stanley Asia, in un articolo pubblicato su Project Syndicate: «Dopo 48 anni di progressi, si sta verificando un’importante rottura del rapporto Usa-Cina. È un risultato tragico per entrambe le parti e per il mondo. Da un’inutile guerra commerciale a un sempre più disperato scambio di accuse sul coronavirus, due Paesi arrabbiati sono intrappolati in un gioco senza una facile via d’uscita».
Secondo Roach «entrambe le economie, intrecciate in una interdipendenza profondamente radicata, saranno danneggiate. La Cina rischia di perdere la sua maggiore fonte di domanda estera, mentre le esportazioni rappresentano ancora il 20 per cento del suo Pil. Perderà anche l’accesso alle componenti tecnologiche statunitensi necessarie per far progredire l’innovazione interna». Non solo: come rivelato dalla Reuters, un rapporto del China Institutes of Contemporary International Relations, think tank affiliato al ministero della Sicurezza di Stato, il principale organismo di intelligence cinese, segnala che il sentimento anti-Cina scatenato dal coronavirus potrebbe alimentare la resistenza ai progetti di investimento per le infrastrutture della Nuova via della seta, e che Washington potrebbe aumentare il sostegno finanziario e militare agli alleati regionali, rendendo più volatile la situazione della sicurezza in Asia. Il rapporto, presentato all’inizio del mese scorso ai vertici di Pechino, tra cui il presidente Xi Jinping, ha concluso che l’ostilità verso la Cina è al suo massimo dalla repressione di Piazza Tienanmen del 1989.
Inoltre, come ricorda Marta Dassù dell’Aspen Institute, la Cina «ha subìto la contrazione più drastica del Pil da quattro decenni a questa parte, ossia dall’inizio delle riforme volute da Deng Xiaoping. E poiché la credibilità del potere cinese si basa ormai largamente sui tassi di crescita economica, questa brusca caduta non resterà senza conseguenze politiche: il contagio economico del virus mette a rischio quel “compromesso sociale” – poca libertà in cambio di molta crescita- su cui si è fondata l’intera fase post-maoista». È probabile poi che la «fabbrica del mondo», com’è definita la Cina, perderà dei pezzi, visto che i Paesi occidentali riporteranno a casa parte della produzione: hanno scoperto la vulnerabilità delle catene globali del valore (a partire dal settore sanitario) e così si accentuerà la tendenza al «re-shoring» delle industrie in Europa e negli Stati Uniti.
Anche per Washington ci saranno conseguenze negative: se la guerra commerciale con Pechino continuerà, gli Stati Uniti perderanno un’importante fonte di beni economici per i suoi consumatori a basso reddito. E vedranno intaccato l’export, visto che la Cina è diventata il suo terzo mercato per dimensioni. Però, a differenza della Cina, gli Usa possono contare su un mercato interno più forte, sulla potenza del dollaro e su un sistema economico più dinamico. Questo li avvantaggerà. Lo sostiene con tutte le prudenze del caso Antonio Villafranca, research coordinator dell’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi): «Se è vero che dalla crisi del coronavirus non usciranno vincitori ma solo perdenti, in un mondo che vedrà il Pil scendere nel 2020 del 3 per cento, peggio che nel 2008 quando calò dello 0,1, è altrettanto vero che sul piano strettamente commerciale la Cina potrebbe rischiare più degli Usa, che hanno ancora ampi margini per imporre dazi a Pechino».
E l’Europa? L’emergenza Covid ha colpito maggiormente le economie dei Paesi deboli. Il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil italiano diminuisca quest’anno del 9,1 per cento, quello spagnolo dell’8, mentre Francia e Germania arretreranno rispettivamente del 7,2 e del 7 per cento. Tra le grandi nazioni europee, la Germania di Angela Merkel è quella che sta uscendo meglio dalla crisi sanitaria, con meno danni sia dal punto di vista delle vittime sia da quello dell’economia. «Grazie anche alle riforme già fatte in passato, la Germania ha un sistema industriale che resiste meglio alle recessioni» spiega Villafranca dell’Ispi. «Per ogni punto di Pil perduto, la disoccupazione tedesca aumenta solo dello 0,1 per cento, mentre in Italia cresce di tre volte tanto».
Un dato chiave è quello del debito pubblico: mentre quello italiano è destinato a salire oltre il 155 per cento del Pil, quello tedesco si fermerà a un rassicurante 68 per cento. Permettendo a Berlino di impegnare la cifra record di mille miliardi di euro per sostenere le proprie aziende. E così alla fine, passata la bufera, la Germania si troverà ad avere finanza pubbliche e un sistema industriale ancora più forti rispetto ai partner europei. Confermando il suo ruolo di leader riluttante dell’Unione: in certi casi quasi ostile, come dimostra la sentenza della Corte costituzionale parzialmente negativa sulla politica della Bce a favore dei Paesi in difficoltà.
«Berlino non vuole dominare l’Europa. Certo, quando si tratta di difendere i loro interessi i tedeschi sono bravissimi, ma attribuirgli oggi mire imperiali è sbagliato» dice Michele Valensise, già ambasciatore d’Italia a Berlino e segretario generale della Farnesina, oggi presidente del centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni. «E nonostante lo stereotipo di uno Stato arcigno, la Germania oggi è relativamente più disponibile ad aiutare i partner più colpiti dalla crisi».
Come l’Italia, destinata a emergere dalla crisi con le ossa rotte e un’opinione pubblica rancorosa. «La Germania non ha interesse a vedere il nostro Paese in difficoltà» sottolinea Valensise. «Il suo sistema industriale è profondamente legato al nostro e noi siamo un grande mercato per i suoi prodotti. E questa emergenza per la Germania potrebbe persino rivelarsi un’occasione di rilancio dell’Ue». La cartina di tornasole sarà il prossimo semestre europeo che inizierà il 1°luglio: sarà a guida tedesca e allora si capirà quale indirizzo vorrà dare la Germania all’Unione. Iniziando magari con un sostanzioso aumento del bilancio.
BENTORNATI IN HOTEL (PIU’ PROTETTO E PIU’ DIGITALE)

di Massimo Castelli
Gli alberghi saranno costantemente igienizzati, avranno divisori in plexiglass e mascherine obbligatorie. Ma si farà molto di più per il rilancio turistico. Dal design ai servizi quasi totalmente informatizzati, la parola d’ordine è: evoluzione.
Niente sorrisi e niente flûte di benvenuto da parte del personale, anche se saranno felicissimi di avere ospiti. Nel primo hotel scelto dopo la pandemia non si avrà neppure la chiave. E ne saremo lieti: vorrà dire che lì i clienti li proteggono. È lo strano futuro degli alberghi, condannati a sopravvivere cambiando, costretti ad adeguare le proprie forze ai nuovi standard di sicurezza e igiene. E anche così, senza aiuti da parte del governo, chissà in quanti ce la faranno.
Alcune catene sono partite in quarta e stanno già fissando protocolli interni basati sulle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e di Federalberghi, giacché di protocolli statali per uniformare gli standard ancora non c’è una virgola. «Sapevamo già che finiva così e ci siamo portati avanti creando nostre regole molto stringenti» dice Valerio Duchini, presidente e a.d. di B&B Hotels Italia, a oggi 26 alberghi riaperti su 41. «Così è nato il nostro protocollo Safety label high quality Anti Covid-19, creato in collaborazione con una società specializzata in sicurezza, la Bco Consulting. Se aspettavamo che al governo si svegliassero… Al turismo non pensano proprio». Quello che stanno mettendo in atto è un esempio di ciò che vedremo rapidamente anche in altre strutture ricettive che hanno a cuore la clientela. «Tra le altre cose i nostri alberghi sono dotati di dispositivi di protezione personali certificati, come mascherine, guanti e calzari, ma anche di dispenser disinfettanti, plexiglass protettivi presso i desk di accoglienza e linee di distanziamento sul pavimento» spiega Duchini. «Abbiamo inoltre inserito restrizioni all’uso delle aree comuni e l’invito all’utilizzo dell’ascensore una persona alla volta».
L’albergo che verrà ha dunque dettagli, in termini di pulizia, che vanno ben oltre spugnetta e disinfettante. Fin dall’ingresso possiamo immaginare di trovare un tappeto igienizzante (previsto dalla catena Best Western), scanner per la temperatura corporea, gel per mani posizionato qua e là. La reception sarà dietro un vetro. Tutti indosseranno mascherine (ecco perché non si vedrà il sorriso delle receptionist) e guanti. «Le attività di housekeeping dovranno essere effettuate secondo criteri rigidi e con procedure speciali da personale adeguatamente formato» indica l’Oms. Lobby, front desk, scale, ascensori, bagni, ingressi, aree business, ristoro e relax saranno disinfettati frequentemente con macchine ionizzatrici, prodotti alla candeggina oppure con soluzione di ipoclorito di sodio allo 0,1 per cento o di alcol al 70 per cento. Negli ascensori si entrerà scaglionati. Nella lobby le poltrone saranno eliminate o divise dal solito plexiglas.
Anche la catena Hilton ha reagito in fretta e parla di numero chiuso all’interno dei suoi fitness center, con aperture a singhiozzo perché saranno igienizzati più volte al giorno. «Se prima la pulizia era un’attività da dietro le quinte, adesso i clienti si aspettano di vederla mettere in atto» ha detto Phil Cordell, a capo dello sviluppo di nuovi brand Hilton. Le camere si sanificheranno con trattamenti di vapore secco a elevata temperatura (+185ºC), con l’ozono (che elimina il 99 per cento degli agenti patogeni come germi, batteri, funghi, muffe e virus), oppure con i raggi ultravioletti Uvc (radiazioni dall’effetto germicida). A disposizione degli ospiti potrebbero arrivare macchinari smart per sanificare i vestiti, come l’AirDresser di Samsung, una piccola cabina che igienizza i capi con potenti getti di vapore. Lauren Rottet, uno degli architetti di interni più celebrati al mondo, ha previsto che nelle stanze sarà comune vedere purificatori d’aria, che sparirà la moquette e che nell’arredamento si andrà verso un nuovo minimalismo. Meno mobilio, meno microparticelle da eliminare. Si potrebbero considerare superflui gli oggetti di uso condiviso come macchina del caffè, telefono, cuscini decorativi, pamphlet pubblicitari, libri e carta in genere.
E questo è un altro cambiamento: ci sarà una digitalizzazione forzata. Il check-in sarà online (il documento si esibirà attraverso un vetro). Alcuni alberghi metteranno a disposizione del cliente app gratuite da scaricare sullo smartphone. E da lì si interagirà con tutti i servizi: sostituirà il telefono in camera e ci si potrà ordinare il room service (tipo Glovo); sostituirà il telecomando del televisore; sostituirà il check-out e il conto si salderà con pagamento digitale). Niente di strano, beninteso: le app erano già una realtà, l’emergenza accelera solo il processo. Basta vedere la Bonvoy App di Marriott, utilizzabile per più di 7 mila hotel del gruppo. Fai check-in nelle 48 ore precedenti e ricevi una notifica quando la camera è pronta. Poi accosti il telefono alla porta per entrare in camera evitando così chiavi o tessere. La app di Hilton è simile (si chiama Honors) e la catena CitizenM, che sta sbarcando a Roma, se fino a oggi mette chioschi digitali al posto della reception, farà usare la sua app per tutto, incluse le ordinazioni per bevande e cibo al piano lobby.
Sì, anche il tema «cibo» in albergo cambierà. Il classico buffet non ci sarà più, sostituito da servizio in camera o da box da portarsi via. Anche accomodarsi al tavolo sarà diverso: l’Oms consiglia di avere un massimo di 4 persone ogni 10 metri quadrati. I tavoli dovranno essere posizionati in modo che la distanza tra il dorso di una sedia e il dorso di un’altra sedia sia maggiore di un metro e che gli ospiti che sono rivolti l’uno verso l’altro siano separati da una distanza di almeno un metro. I cubicoli in plexiglass di cui si parla per i ristoranti si potrebbero vedere anche nelle sale d’albergo. «Aumenterà notevolmente la richiesta di room service, che noi intendiamo rendere gratuito» prevede Mattia De Gennaro, marketing director della catena HO Hotels Collection, tra cui il Patria Palace di Lecce.
Ma con il bel tempo, i pasti si organizzeranno all’aperto. «Vogliamo valorizzare al massimo i nostri giardini, magari creando bespoke dining experiences» dice Robert Koren, vice presidente della catena di lusso Belmond. Sfrutterà i suoi spazi verdi anche il gruppo Rocco Forte. «Penso che i viaggiatori cercheranno vacanze di qualità per vivere il più possibile fuori, all’aria aperta» dice lo stesso fondatore e presidente, Sir Rocco Forte. «Il nostro Verdura Resort, in Sicilia, è di fatto un’oasi protetta dove l’accesso alla spiaggia è esclusiva della tenuta, mentre la nostra Masseria Torre Maizza in Puglia è immersa nel verde e perfino la palestra è tutta esterna, circondata da alberi di limone».
Il turismo in Italia vale il 13,2 per cento del Pil, 230 miliardi, e conta 3,5 milioni di addetti. Qualunque cosa cambi, basta che funzioni.
TUTTA UN’ALTRA MUSICA: C’ERA UNA VOLTA IL CONCERTO. E ORA?

di Gianni Poglio
Sarà un’estate senza la musica dal vivo, da cui derivano i tre quarti degli introiti per gli artisti. E il futuro è ancora più incerto, Tra esibizioni drive-in, teatri a posti contingentati e tanto streaming. Intanto, qualcuno, come i Berliner nella classica o Travis Scott nel rap, sperimenta piattaforme alternative. Ma a pagamento.
Porte chiuse e spalti vuoti: è questo l’orizzonte della musica dal vivo nelle grandi arene, nei palasport e negli stadi. Un lockdown lungo almeno altri 12 mesi che rischia di azzerare, o quasi, un business da 600 milioni di euro l’anno (l’Italia è il sesto mercato al mondo per numero di biglietti venduti). Lo scenario è semplice quanto fosco: in assenza di un vaccino anti Covid-19, non è immaginabile stipare migliaia di persone nello stesso luogo. E, anche qualora il quadro sanitario dovesse apparire più rassicurante nei prossimi mesi, quanti sarebbero realmente gli spettatori disposti ad ammassarsi in piedi davanti a un palco o ad accomodarsi sulle gradinate sold out di uno stadio? «I primi studi di settore» spiega Enzo Mazza, presidente della Federazione industria musicale italiana, «dicono che una discreta fetta di pubblico, non ancora esattamente quantificata, sarebbe disposta a tornare a un concerto in un periodo di tempo compreso tra i due e i cinque mesi dalla fine della pandemia. Tutti gli altri no, a meno che non si arrivi a un vaccino».
Per non arrendersi alla logica del default da lockdown, urgono soluzioni per il futuro immediato, anche perché non è segreto che i tre quarti degli introiti dei musicisti derivino dal box office. Una regola che vale per tutti, ma soprattutto per gli artisti più giovani (vedi rapper e trapper) legati a un pubblico adolescenziale, che ascolta in streaming senza acquistare cd o vinili.
«L’ipotesi di concerti di massa in stile drive-in non mi convince» racconta Giancarlo Campora della Botw, società che si occupa degli allestimenti e della parte tecnica di grandi eventi musicali, sportivi e aziendali. «Dal punto di vista logistico, gestire 10-15 auto nella stessa area mi pare francamente impraticabile. Detto questo, nessuna azienda come la nostra può reggere un intero anno di blocco. Secondo me il futuro è l’utilizzo del grande patrimonio dei teatri italiani, spesso dotati di palchi laterali. Limitando la capienza dei palchi separati, disponendo gli spettatori a scacchiera in platea e gestendo in sicurezza l’ingresso e il deflusso del pubblico, si potrebbe ripartire. Ovvio che la capienza di un teatro da 2.500 posti si ridurrebbe indicativamente a 800. La stessa formula, rispettosa del distanziamento fisico, si potrebbe replicare anche all’aperto per eventi medio-piccoli» dice a Panorama.
Gli fa eco Claudio Trotta, promoter e titolare della Barley arts: «Le stesse regole di distanziamento che valgono per i supermercati e, a partire dalle prossime settimane, per musei e biblioteche, dovrebbero essere applicate anche ai concerti con posti esclusivamente a sedere distanziati. Questo è ciò che si può fare qui e ora. Il fatturato annuale della musica live è costituito da eventi kolossal, ma anche da migliaia di esibizioni e performance in spazi di dimensioni contenute. Che, nel rispetto delle norme di sicurezza, vanno riaperti, usando il sistema del biglietto nominale per sapere con certezza a chi viene assegnato quel determinato posto. Capienza ridotta significa incassi più che dimezzati: per questo, occorre ripensare l’intero impianto economico degli spettacoli. Tutti, a cominciare dagli artisti, devono rinegoziare i loro compensi. Meglio guadagnare qualcosa, che niente», conclude.
«Da adesso in poi il music business entra in modalità “lockdown economy”» sottolinea Mazza. «Per quanto riguarda gli eventi live, il futuro sarà nel segno dello streaming. Nell’ambito della musica classica e dell’opera ci sono già diversi esempi, come i Berliner, di dirette streaming in abbonamento o pay-per-view. Negli Stati Uniti, il portale Live from out there, a cui si accede tramite sottoscrizione, ha incassato 100 mila dollari in un weekend proponendo performance di artisti di nicchia. Assisteremo con tutta probabilità anche a esibizioni speciali, in diretta e a pagamento, di grandi nomi. Show in esclusiva che, grazie agli strumenti di realtà virtuale ed ai visori a 360 gradi, saranno in grado di offrire un’esperienza immersiva» afferma.
A questi scenari futuristici si aggiunge l’operazione rivoluzionaria del rapper di Houston, Travis Scott, che ha cantato dal vivo su Fortnite, una delle piattaforme di videogiochi più amate dai millennial. Tra diretta e repliche, lo hanno visto 27 milioni di ragazzini in tutto il mondo. «L’effetto live su Fortnite ha incrementato lo streaming del catalogo di Scott del 26 per cento. Maggior popolarità e grande incremento dei diritti d’autore in un colpo solo» prosegue Mazza. «Il pubblico del videogame non ha comprato un biglietto per assistere all’evento, ma il concerto ha generato comunque ricavi notevoli grazie al fatto che molti utenti, per assumere virtualmente i panni e le sembianze di Scott nel gioco attraverso le cosiddette “skin”, hanno pagato 25 dollari ciascuno».
Resta un ultimo aspetto, quello dei supporti fisici, cd e vinili, colpiti duramente dal lockdown con una contrazione di mercato pari al 90 per cento. «Due le soluzioni: l’ecommerce e la proposta di prodotti sempre più esclusivi e a tiratura limitata, destinati a un pubblico di musicofili che non vuole rinunciare all’esperienza tattile» conclude Mazza.
Fondamentali in questo ambito erano i «firmacopie», ora ovviamente sospesi a tempo indeterminato, quegli eventi in cui il fan si presentava con l’esemplare del vinile o del cd appena acquistato per farselo autografare dal proprio idolo. «Per l’uscita del nuovo album di Ghemon, uno dei rapper italiani più popolari» racconta Claudio Ferrante di Artist first, «noi e la casa discografica Carosello ci siamo inventati il firmacopie virtuale. In pratica, Ghemon incontra su Zoom per qualche minuto ogni fan che ha preordinato il disco online». Non è la stessa cosa di un appuntamento in carne e ossa, ma queste sono le nuove regole d’ingaggio nell’era della lockdown economy… n
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NELL’ERA DEL DISTANZIAMENTO CINEMATOGRAFICO

di Marco Giovannini
Addio set tradizionali, oggi va in scena lo smart acting. E lo streaming cambierà anche le regole per gli Oscar…
Maggio, mese di fiori, mamma e Madonna…E, fino a ieri, del Festival di Cannes, stoppato solo da problemi di bilancio nel 1948 e 1950 e dallo sciopero di operai e studenti nel 1968. In assenza del festival, contentiamoci della notizia di un timido ritorno alla produzione, con le armi della creatività.
A Roma ecco Il giorno e la speranza di Daniele Vicari, senza un vero set: è un film collettivo, tre delle quattro coppie protagoniste (nella finzione bloccate in casa da un attentato chimico) lo sono anche nella realtà, per cui possono interagire fra le loro mura. Devono truccarsi, vestirsi, e riprendersi con un cellulare collegato a una mini steady cam, seguendo testo e immagini delle inquadrature, recapitate a casa. Il regista Vicari è collegato online, come il resto della troupe minima. Dallo smart work allo smart acting… Il collega islandese Baltasar Kormákur risponde con Katla, sull’eruzione di un vulcano, complicata dal soprannaturale.
In America, invece, Texas e Georgia si dicono pronti a riaprire le sale. Nell’attesa del vaccino, c’è chi paragona la situazione a quella del 1918, quando la Spagnola uccise nel mondo 50 milioni di persone. Erano i tempi del muto, Hollywood ci impiegò un paio di anni per rimettersi in piedi, e qualche altro per cambiare rotta, creando la Paramount.
Stavolta un lieto fine sembra più arduo, considerando che il «settore audiovisivo» equivale solo in California a 72 mila posti di lavoro, con 68 miliardi di dollari annui di stipendi, più 2,4 miliardi di indotto. A gennaio c’erano 1.091 produzioni approvate, oggi nessuna. Le parole magiche sono diventate kit e protocolli per riaprire sale e set. La Director’s guild, il sindacato dei registi, ha affidato una task force a Steven Soderbergh, che 12 anni fa aveva anticipato l’incubo nel film Contagion. Ha convocato i consulenti scientifici di allora, scoprendo che il virologo Ian Lepkin era stato contagiato.
La cine-estate americana è per ora ridotta a pochi titoli: Wonder woman 1984 (4 giugno), Tenet, thriller esistenziale di Christopher Nolan (17 luglio), Mulan, versione live del cartone Disney (24 luglio). Tutti gli altri, a fine anno o nel 2021.
Chiaramente le piattaforme streaming non molleranno il potere conquistato nella «nuova normalità». Invece che saturare il mercato, lo sbarco delle nuove piattaforme Disney+, Apple+ e HBO Max, nell’orto di Netflix, Amazon e Hulu, non ha scatenato le temute SW (Streaming wars alla maniera di Star wars), perché i clienti si sono dimostrati pronti ad aumentare la media dei loro abbonamenti da tre a cinque (in Italia, è nata sia la sala virtuale True colors, in collaborazione con Lucky Red e il sito Mymovies, e con le sale del Circuito Cinema, sia il progetto di Lionello Cerri, gestore di Anteo a Milano).
Anche dopo l’emergenza, fra streaming e cinema il confronto non potrà essere interrotto. Netflix è appena entrata nell’Anica, Associazione nazionale delle industrie cinematografiche dell’audiovisivo. Non solo: l’Academy ha annunciato che per l’Oscar 2021 sarà abolita la regola secondo cui un film per essere candidato dev’essere proiettato in una sala per almeno una settimana. Per la prima volta va bene anche lo streaming. E, pare certo, cambieranno le regole anche per i David di Donatello. I set saranno meno frequentati e green screen e effetti speciali aiuteranno a limitare presenze e rischi. Il sindacato delle comparse è già in agitazione. Saranno loro, assieme alle maestranze spesso senza contratto né ammortizzatori sociali, le vittime sacrificali del cinema post pandemia, l’equivalente dei militi ignoti nelle guerre?
LA NUOVA VIA DELLO SHOPPING (SANIFICATO)

di Massimo Castelli
Tra ecommerce «a rovescio» e personal assistent à go-go: alla riapertura i negozi saranno molto diversi. E non è che l’inizio.
Aperture dei negozi di abbigliamento incerte per date e modalità. A quelli che sono una nervatura della nostra economia solo raccomandazioni vaghe su distanza di sicurezza, mascherine, dispenser per il gel mani. C’è anche la sanificazione dei camerini e dei capi provati, ma né il vapore ad alta temperatura (che alla lunga impatta sui capi delicati), né l’ozono (considerato da molti commercianti economicamente insostenibile) sembrano praticabili su larga scala. Dunque nessuno sa esattamente che cosa accadrà al caro vecchio shopping. Ma su come si svilupperà in futuro alcune ipotesi ci sono. La prima è: si dovrà sperimentare.
Tra i primi a comunicare con forza un’idea di alternativa, Elena Mirò. Include l’ingresso di non più di quattro clienti per volta e su appuntamento nelle sue boutique. Con il probabile risultato di ospitare clienti più motivati e soddisfatti. L’allestimento ricorderà uno showroom, ha detto il brand manager Martino Boselli, con collezioni appese in modo visibile e camerini temporary per evitare assembramenti. Dopo averli provati, i capi saranno igienizzati. Ma capiterà anche che le commesse/personal shopper in videochiamata con le clienti forniscano consigli sulla base del guardaroba che vedono in diretta.
Ecommerce e senso di esclusività sono due chiavi di lettura del futuro, e probabilmente si diffonderà la personalizzazione dello shopping anche per quei negozi che al segmento lusso non appartengono. Ne è prova Pinko, che ha detto di voler riaprire il 18 maggio lanciando il progetto Concierge: si mette a disposizione una personal shopper che, in live dalla boutique di Milano, esaudirà ogni desiderio di alcune clienti, le quali vedranno sul proprio device i capi indossati e ne chiederanno prezzi e consigli di stile. Su appuntamento si potrà anche richiedere un autista che accompagna la cliente in boutique, dove ad aspettarla ci sarà un personal shopper.
«Il settore dei retailer già cercava di innovarsi, ma a fatica, l’arrivo del Covid-19 ha dato una sveglia a tutti» dice Massimo Volpe, che ha appena lanciato in Italia il progetto Retail hub con lo scopo di accelerare l’innovazione nel nostro mercato. «Ritengo che i negozi faranno più da showroom e che ci sarà un boom di temporary shop dove vedere i capi per poi ordinarli online. Poi la merce arriva a casa. Altre innovazioni? I camerini digitali per simulare la prova di un abito senza indossarlo, come fanno già Diesel e Ovs, oppure le app per prendere le proprie misure e ricreare un’immagine virtuale che si prova un capo al nostro posto. Al punto vendita ci vai solo per vedere il tessuto. L’ecommerce ma a rovescio di come lo conosciamo adesso… Sarà un nuovo mondo» conclude Volpe. «E chi non cambia rischia di chiudere».
Sperimentano anche giganti Usa dell’abbigliamento come Nordstrom (fatturato da 15,86 miliardi di dollari) che riaprirà con varie novità, tra cui: i capi restituiti saranno rimessi in vendita dopo una quarantena; le file alle casse saranno divise da lunghi plexiglass e l’area coinvolta igienizzata dopo ogni cliente; il cash sparirà. Mentre gli shopping center a marchio Federal fanno «The Pick-Up». Il cliente ordina al telefono o su app, poi a un orario stabilito va al negozio in auto, ma non deve neanche scendere: un inserviente carica nel bagagliaio il dovuto. Zero interazione. Comme il faut.
