Bob Dylan: Rough and Rowdy Ways è un viaggio dentro noi stessi
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Bob Dylan: Rough and Rowdy Ways è un viaggio dentro noi stessi

Il trentanovesimo album del bardo di Duluth, tra blues e ballad, è ricco di brani memorabili, come Mother of Muses, Key West (Philosepher Pirate) e Murder most foul


In oltre cinquant' anni di carriera, Bob Dylan, il più grande cantautore vivente nonché Premio Nobel per la Letteratura, ha attraversato la storia del folk e del rock sorprendendo sempre i critici e i fan con i suoi continui cambiamenti di stile. Appena si aveva l'impressione di averlo inquadrato in una definizione, eccolo pronto a smentirla, sparigliando di nuovo le carte con un nuovo album, sorridendo mefistofelico dietro la sua maschera enigmatica e sfuggente. Si pensi agli ultimi tre dischi Shadows in the night, Fallen angels e Triplicate, dove il cantautore si è reinventato cantante confidenziale alla Frank Sinatra, mentre il suo ultimo album di inediti, l'eccellente Tempest, risale al 2012. Dopo aver allietato la quarantena degli appassionati di musica di qualità con gli eccellenti brani Murder Most Foul, I Contain Multitudes e False Prophet, c'era grandissima attesa per la sua trentanovesima pubblicazione ufficiale, Rough and Rowdy Ways, da oggi disponibile in doppio cd, doppio vinile e in streaming.

Come sempre, anche nel suo ultimo disco le canzoni sono evocative, ricche di metafore e di figure retoriche, spesso oscure, indubbiamente di grande fascino, che necessitano di più ascolti per essere decodificate: non potrebbe essere altrimenti, per un Premio Nobel. Dylan, nell'unica in un'intervista concessa per l'uscita dell'album al New York Times, ha raccontato che queste canzoni sono come dei dipinti, scritte quasi in una fase di trance. Le atmosfere cupe, solenni, jazzate e notturne sono magnificamente tratteggiate dai fedeli musicisti Charlie Sexton e Bob Britt (chitarre), Donnie Herron (steel guitar, violino, accordeon), Tony Garnier (basso) e Matt Chamberlain (batteria). D'altra parte la metamorfosi, il non-finito è il segreto dell' arte dylaniana, che si rinnova ciclicamente senza l'esigenza di essere al passo con i tempi e, proprio per questo, di non essere soggetta all'usura del tempo. La foto di copertina, suggestiva e vintage, è stata scattata 56 anni fa a Whitechapel dal fotografo Ian Berry, durante un servizio sulla cultura nera in Inghilterra per l'Observer.

Anche se la cover è stata realizzata prima dell'omicidio di George Floyd, è quasi come se Dylan avesse fiutato nell'aria il riaccendersi della questione razziale: «Mi ha nauseato senza fine vederlo torturato a morte in quel modo- ha dichiarato al New York Times- È stato oltre l'orrore. Speriamo che la giustizia arrivi presto per la famiglia Floyd e per la nazione». In I contain multitudes, Dylan mette in guardia l'ascoltatore, con la sua inconfondibile voce nasale e garrula, di essere un coacervo di contraddizioni, accompagnato da un sobrio impasto sonoro di chitarra, pedal steel e pianoforte, dichiarando apertamente con alcuni hashtag, nel laconico tweet in cui preannuncia l'uscita della canzone, i temi in essa contenuti: oggi e domani, scheletri e nudi, scintille e flash, Anne Frank e Indiana Jones, macchine veloci e fastfood, blue jeans e regine, Beethoven e Chopin, vita e morte. Dylan, come sempre, gioca a nascondino con l'ascoltatore, che rimane spiazzato dal continuo alternarsi di riferimenti autobiografici e pura fiction : «Mi spingo fino al limite, vado fino in fondo/ vado proprio dove tutte le cose perse vengono rimesse a posto/ canto le "Canzoni dell'esperienza" come William Blake». False Prophet è un classic blues in dodici battute, cadenzato, sensuale e ricco di calore. L'incipit è folgorante, in pieno stile dylaniano: «Un altro giorno che non finisce, un'altra barca pronta a salpare, un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbio». Il suo palese fastidio per essere considerato quasi un profeta emerge compiutamente dai versi «Non ho falsi profeti, ho solo detto quello che ho detto, sono qui solo per vendicarmi di qualcuno", ma anche «Sono il primo tra pari, secondo a nessuno, l'ultimo dei migliori, puoi seppellire il resto». La tensione latente tra redenzione e perdizione si evince dalle citazioni di "città di dio" e "piccolo diavolo", a un certo punto si rivolge a due misteriose donne, Mary Lou e Miss Pearl, cita il "nemico della lotta" di Martin Lutero e la cultura Zen mentre esplicita quello che è il suo vero obiettivo: «Canto canzoni d'amore, canzoni di vendetta, fregatene di quello che bevo, fregatene di quello che mangio, ho scalato montagne di spade a piedi nudi». La monumentale Murder most foul, il delitto più efferato, è una citazione dall'Amleto di Shakespeare, quando lo spettro del padre descrive la sua morte ad Amleto. La canzone, della durata di 17 minuti, è quasi un album nell'album, tanto da essere inserita in un cd a parte, che contiene una pletora di riferimenti letterari e storici, oltre a citazioni da canzoni e film, soprattutto relativi all'assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963, l'omicidio più traumatico della storia degli Usa. Nick Cave, sul suo blog The Red Hand Files, ha dato una lettura illuminante del brano:

«L'implacabile cascata di riferimenti a varie canzoni è un modo per raccontarci il potenziale che abbiamo noi esseri umani di creare bellezza, persino di fronte al male. Murder Most Foul ci ricorda che non tutto è perduto, la canzone stessa è un'ancora di salvezza che ci viene lanciata mentre annaspiamo, oggi». Nella ballad rarefatta e spettrale My Own Version of You, l'inquietante storia di un uomo che vaga per i cimiteri per rimettere insieme il corpo della propria amata, troviamo riferimenti a Leon Russell e a Liberace, ma anche ad Al Pacino in Scarface e a Marlon Brando nel Padrino, mentre il caldo blues Goodbye Jimmy Reed, il brano più movimentato dell'album, è fin dal titolo un dichiarato omaggio a uno dei padrini del blues elettrificato, che tanto ha influenzato gli Stones e lo stesso Dylan della svolta elettrica di metà anni Sessanta: da brividi il momento in cui subentra il suono dell'armonica a bocca, un topos dell'arte dylaniana.

Bob Dylan - Murder Most Foul (Official Audio)www.youtube.com


Sia nella breve Black Rider (il cavaliere nero a cui Dylan volta le spalle per evitare il combattimento) con il suo mandolino mediterraneo e le chitarre latineggianti, che in Crossing the Rubicon, terzo blues da antologia Rough and Rowdy Ways, si respira l'ombra minacciosa e incombente della morte. In quest'ultima, quando la voce narrante dichiara di trovarsi a "tre miglia a nord del purgatorio e a una passo dall'aldilà", si rimane nel dubbio se siano i pensieri di Giulio Cesare prima della decisione irrevocabile di attraversare il fiume che divideva Roma dalla Gallia cisalpina o dello stesso cantante, che inizia a intravedere la fine del suo percorso terreno. I momenti più memorabili dell'album sono probabilmente Mother of Muses, una magnifica ballad folk vecchia maniera, con due chitarre acustiche e una spruzzata di violoncello, che rende omaggio alle figure di Elvis Presley e Martin Luther King, e la dolce conclusione di Key West (Philosepher Pirate), un tributo agli amici scomparsi della beat generation che tanto hanno contribuito alla formazione della sua poetica. Key West è un'isola che si trova alla fine di una lunga autostrada che solca l'oceano, il punto più a sud degli Stati Uniti, a 145 km a nord da Cuba: il posto ideale, sembra suggerire il brado di Duluth, dove ritrovare se stessi: "Key West is the place to be if you're looking for immortality/Stay on the road, follow the highway sign/Key West is fine and fair, if you've lost your mind, you'll find it there/Key West is on the horizon line". Come ogni album di Dylan, anche Rough and Rowdy Ways necessita di più ascolti per coglierne appieno i significati reconditi e le sfumature musicali, ma una cosa è certa: mai come in questo periodo, dominato dal nichilismo della trap, dalla dance usa e getta e dall'ondata del k-pop, c'è bisogno di un disco come questo che ci parla, con cruda poesia, di vita e di morte, di eroi e di dannati, di viaggio e di perdita. Di noi.

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Gabriele Antonucci