Per correre in Formula1 bisogna essere ricchi, per diventare fenomeni bisogna essere stati poveri». La massima di Enzo Ferrari supera la prova del tempo, non fa ruggine.
È stato così per Michael Schumacher, che imparò a guidare nel piccolo circuito di go-kart gestito dal padre di fianco ai piloni di una tangenziale a Kerpen in Renania. Ed è stato così per il suo successore diretto, Lewis Hamilton, che indossa da qualche settimana la livrea rossa e fra un mese metterà in moto il 12 cilindri Ferrari per dare la caccia all’ottavo titolo mondiale, uno in più del tedesco. Oggi il baronetto nero di Sua maestà guadagna come una rockstar: 50 milioni l’anno più 20 di bonus. Ma prima? Oggi il Tiger Woods a300 all’ora è l’icona pop dei diritti universali di un mondo radical-chic avvezzo a ostriche e champagne. Ma prima?
Le risposte stanno dentro un libro che ripercorre come un lungo gran premio (accelerazioni, frenate, curve, testacoda) la storia di una vita in salita, dalle sportellate alla periferia di Londra con avversari che lo chiamavano «cioccolatino», ai dreadlocks; dalle notti trascorse sul divano (palleggiato dai genitori separati), ai duetti canori con Christina Aguilera. Fino alle imprese sportive, ai 105 gran premi vinti, ai 202 podi, a quel fisico scolpito, modellato dall’algoritmo. E ai 40 anni arrivati a travolgere il campione come una slavina, con l’urgenza di realizzare il sogno di una vita: guidare una Ferrari. Il volume s’intitola semplicemente Lewis Hamilton, sottotitolo «La storia del nuovo pilota Ferrari», editore Limina.
È la biografia definitiva e l’ha scritta un esperto della materia, il giornalista sportivo inglese Frank Worrall(scrive per giornali come Sun, Sunday Times, Mailon Sunday), amalgamando al meglio testimonianze e racconti in prima persona, commenti a caldo dopo legare, interviste e approfondimenti. Il tutto con lo scopo di raccontare a caleidoscopio non solo la vita di uno dei piloti più affascinanti di sempre, ma anche la storia di un uomo capace di superare limiti e pregiudizi, di cambiare le regole del gioco, di trasformare uno sport per supervip in una sfida planetaria. Come sottolinea l’autore, «tenendo lo sguardo sempre fisso non sul traguardo, ma un po’ più in là».
Tutto comincia dalla passione per le automobiline di un pargolo nato a Stevenage, poco a nord di Londra. «Amava la velocità fin da quando ha messo i dentini», rivela mamma Carmen. «Al suo primo compleanno gli abbiamo regalato un volante giocattolo in plastica, di quelli che puoi attaccare al passeggino per far finta di guidare. Da quel giorno ha sempre avuto le mani su un volante». E tutto prende forma dalla perseveranza e dai sacrifici di papà Anthony, ferroviere originario dell’isola caraibica di Grenada, che per dare una chance al figlio nel mondo delle corsesi trova a fare tre lavori. Per ringraziarlo, da sempre il numero di Lewis è il 44, parte della targa della prima auto di papà, una Vauxhall.
«Sono stato incredibilmente fortunato ad avere il sostegno di mio padre, perché ai tempi dei go-kart non ricordo nessuno dei miei avversari che venisse dal nostro stesso ambiente. Avevano tutti genitori agiati. Già allora sapevo che nella mia carriera avrei incontrato delle difficoltà, ma mi dicevo: se fosse facile vincere, ci riuscirebbero tutti. Questa mentalità deriva dal fatto che, fin da quando avevo nove anni, ho passato ogni weekend in pista. Non andavo mai in giro con gli amici. Ero con papà, era lui il mio miglior amico. Immagino di essermi perso un po’ di cose, tipo le stupidaggini che si fanno tra compagni di scuola, ma ho capito presto di poter avere tutti i giochi che volevo se continuavo a darmi da fare e a vincere».
Non ci sono soltanto circuiti con l’odore di olio bruciato. Non solo McLaren, Mercedes e pole position. Il viaggio «Inside Hamilton» riserva altre sorprese. La più complicata è la doppia famiglia, quando papà e mamma si separano e lui diventa l’ago della bilancia affettiva. La più edificante è rappresentata dal volto sorridente del fratello non biologico Nicolas (oggi 32 anni), affetto da paralisi cerebrale e presente ad ogni sua gara a fianco del padre. Il loro rapporto è splendido, Lewis lo descrive così: «Nicolas è importantissimo per me, è lamia ispirazione. Averlo vicino mi aiuta a dare il giusto peso alle cose. Praticamente io corro per lui».
Quella del fratello disabile è una presenza solida, in centro di gravità permanente. Continua Hamilton: «Nicolas è un ragazzo fantastico, e sono felice quando posso fare qualcosa per lui. Per esempio, ci piacciono le macchine telecomandate: gliene ho appena regalata una nuova e poi me la sono comprata anch’io, così possiamo gareggiare. Malgrado la paralisi cerebrale, Nicolas vuole davvero realizzare grandi cose: magari partecipare alle Paralimpiadi, oppure lavorare in ambito Formula 1. Non mi stupirebbe se provasse la carriera di telecronista. Mi aiuta a essere concreto: nella mia famiglia è soprattutto lui a farmi tenere i piedi per terra, specie in un mondo come la Formula 1». Dove tenere i piedi per terra significava (e significa) anche comprare il food cinese d’asporto dopo le gare e andare a mangiarselo lontano dallo star system.
È questo l’uomo arrivato a Maranello a 40 anni per far tornare la Ferrari a vincere un mondiale costruttori e aiutare Charles Leclerc a compiere l’ultimo salto di qualità. Esperienza, attitudine alla sfida ad alto livello, capacità di gestione del team. «Sarà un valore aggiunto », dicono nella factory dei bolidi. «Lewis non è qui per collezionare tute rosse». Lui ha sempre avuto le idee chiare e gli obiettivi precisi. Sin dal giorno in cui, a dieci anni, dopo avere vinto l’Autosport Award dei cadetti chiese l’autografo a Ron Dennis. «Mi chiamo Lewis Hamilton, voglio diventare pilota di F1». Il patron della McLaren sorrise: «Ne riparliamo fra nove anni». Lo richiamò dopo tre con il contratto in bianco.