Anonymous: quanto ci costa il crimine digitale
Economia

Anonymous: quanto ci costa il crimine digitale

Dietro alla maschera di Guy Fawkes, c’è un movimento spontaneo e frammentario che minaccia i bilanci delle aziende

Nelle ultime ore, un articolo apparso su un quotidiano italiano racconta con divertita ironia come il movimento Anonymous, che si nasconde pubblicamente dietro il volto di Guy Fawkes, paghi in realtà le royalties a una delle corporation contro cui si schiera. Time Warner, titolare dei diritti del film “V per vendetta” dove appare l’iconica immagine, incassa infatti una percentuale su ogni maschera venduta, così come Amazon che pare essere uno fra i primi rivenditori del prodotto. La notizia, in realtà, era stata pubblicata da The New York Times nell’estate del 2011.

Nel frattempo, il movimento Anonymous è andato avanti. Quanto? Una misura si può  avere dalla stima del costo economico e sociale dei suoi attacchi. L’aggressione del 2011 al sito di Sony, quando per settimane il network di Playstation è stato sotto scacco con milioni di account violati, sarebbe costata all’azienda giapponese, qualcosa come cento milioni di dollari, secondo quanto riportava Bbc . PayPal, invece, ha quantificato in 5,5 milioni di dollari il danno causato dal cyber attack, perpetrato dal network di Anonymous che accusava il sito di non aver accettato donazioni a favore di Wikileaks di Julian Assange. Per riparare al danno, oltre cento dipendenti di eBay hanno lavorato tre settimane per rimettere in sesto il sistema .

In totale, si calcola che siano 11mila i navigatori collegati alla chat di Anonymous che ha inaugurato l’anno con un video che raccoglie le principali azioni compiute nel 2012, e che mette in guardia: “Aspettateci nel 2013 ”. Il network di “hackivisti”, un sostantivo che unisce il concetto di hacker e di attivista, ha vantato la paternità degli attacchi al Dipartimento della Giustizia, all'Fbi, a Universal Music, alla Motion Picture Association of America, quest’ultimo perpetrato in risposta alla chiusura da parte del governo americano del sito di file-hosting Mega Upload. A febbraio, come forma di ritorsione al suicidio dell’attivista Aaron Swartz accusato di frode elettronica dal Dipartimento della Giustizia americano, gli hacker di Anonymous hanno attaccato il sito della Federal Reserve e violato gli account di oltre quattromila manager di banche americane.

Molto spesso, in realtà, gli attacchi di Anonymous non prendono la forma di un hackeraggio tradizionale, ma quella di un "Ddos", ovvero un Distributed Denial-of-service, una valanga di contatti da cui i siti fanno fatica a difendersi, come dimostrano i 44 milioni di contatti che hanno messo in crisi il sito del Governo di Israele. L’elenco delle aziende hackerate, secondo gli esperti, è molto più lungo di quanto raccontino i titoli dei giornali: una comprensibile ritrosia, infatti, trattiene dal pubblicizzare gli incidenti . Ma questo non significa che la minaccia sia meno preoccupante. Uno studio di Ponemon Institute, condotto su 56 imprese americane, ha evidenziato come il costo annuale di cyber-attack si attesti in media su 8,9 milioni di dollari l’anno per azienda. A livello globale, stima Symantec, azienda specializzata in software di sicurezza, il costo complessivo nel 2011 toccava su 388 miliardi di dollari. Il tutto, senza contare gli effetti a catena che la violazione di dati sensibili, come quelli che Anonymus riferisce di aver trafugato dal recente attacco alla Federal Reserve, possono avere sull’economia all’allargata.

Quasi dieci anni fa, Chris Anderson, direttore di Wired, aveva anticipato gli effetti della “Lunga coda ”, ma ipotizzare le conseguenze economico-sociali dell’azioni dell’alveare, immagine scelta da Anonymus per identificare i propri membri, è qualcosa che va ben oltre i diritti che incassa Time Warner per le maschere che hanno regalato una visibilità iconica al movimento. E da quanto incasserà, in futuro, per tutti i film sul crimine digitale ispirati alle azioni degli “hacktivisti” di Anonymous.

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Stefania Medetti

Sociologa e giornalista, ho barattato la quotidianità di Milano per il frenetico divenire dell'Asia. Mi piace conoscere il dietro le quinte, individuare relazioni, interpretare i segnali, captare fenomeni nascenti. È per tutte queste ragioni che oggi faccio quello che molte persone faranno in futuro, cioè usare la tecnologia per lavorare e vivere in qualsiasi angolo del villaggio globale. Immersa in un'estate perenne, mi occupo di economia, tecnologia, bellezza e società. And the world is my home.

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