Riccardo Bertoncelli, 'Una vita con Bob Dylan' - La recensione
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Riccardo Bertoncelli, 'Una vita con Bob Dylan' - La recensione

Un viaggio lungo cinquant'anni, con amore e malumori, sulle piste del "più grande americano vivente" (A. Ginsberg, 1978)

Annus horribilis per la storia del rock - da David Bowie a George Michael, quasi ogni ogni mese ha pagato il suo doloroso tributo - il 2016 sarà ricordato per il fatale abbraccio fra il mondo della canzone e la cultura mainstream, sancito dal premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Che sia l'inizio o la fine di un'epoca, malgrado i tanti autorevoli interventi in materia, soltanto il futuro potrà dircelo. Eppure molto tempo fa, fra le righe di un'improbabile intervista, il maestro aveva fornito un indizio che ora possiamo rileggere in Una vita con Bob Dylan, antologia di storie dylaniane curata da Riccardo Bertoncelli: "La musica è l'unica arte in sintonia con ciò che accade".

Non una biografia, non un'esegesi né una celebrazione ma un libro in diretta e in differita, spiega l'autore. Una vita con Bob Dylan mette in fila cinquant'anni di lavoro appassionato sulle tracce di quell'"affamato succhiatore di vita" nato il 24 maggio 1941 in una cittadina del profondo nord americano. Non ci troverete nemmeno una riga dedicata al Nobel. Però "che gioia", sorride Bertoncelli, "anche se so già che davanti a re Carlo Gustavo il nostro Bobby si presenterà con faccia da sfinge". Poi pazienza se non si è presentato, e se il discorsetto che ha fatto recapitare somigliava più al tema di un maturando che alle parolibere nello spirito di Ginsberg e Rimbaud. "Va bene lo stesso, festeggeremo noi".

Ed è una festa, leggere Una vita con Bob Dylan, travolgente rewind in presa diretta al tempo in cui una canzone poteva accordarsi al ritmo delle Lowlands, i bassopiani di Blonde on Blonde, occupando perfino la facciata intera di un vinile, e un reportage accordarsi al ritmo di quella canzone, dispiegando un potenziale infinito di pane amore & immaginazione. Anche nei capitoli più brevi, troverete qui una serie di cronache marziane, non imbrigliate dal tempo medio di lettura sullo smartphone (tre minuti, e vi sembrano pochi?). Il rock era giovane, il giornalismo musicale (quello italiano poi) appena in fasce, le informazioni da oltreoceano poche e frammentarie. Eppure quelle storie continuano a essere favolose.

Io sono le mie parole, potrebbe dire Bertoncelli con le parole di Dylan. Parole che servono per smontare e rimontare il "mito" come un cubo di Rubik, falsificarne i contorni per rendere l'opera più vera, picconare sempre e comunque il Luogo Comune: il suo verbo etico-estetico è invecchiato pochissimo dai tempi in cui i giornalisti-fan trattavano gli idoli musicali come pupazzi di un teatrino, "per ringraziarli paradossalmente di aver eccitato la nostra fantasia". E non c'è odore di politically correct nemmeno nella parziale riabilitazione di Desire (2016), che qui possiamo leggere proprio accanto alla celebre stroncatura pubblicata su Gong nel 1976. Questioni di coerenza e schiettezza, questioni di stile, di sfumature, in una prosa che schiude le porte dell'immaginazione.

Essere dylaniani, ho cominciato a capire, significa tuffarsi nell'ossessione con un sorriso e una consapevolezza: non esiste un approdo sicuro nel mondo Dylan, che è elusivo e irrequieto per codice genetico. No Direction Home significa che bisogna accettare la metamorfosi, il non-finito, la non conseguenzialità come il segreto di una forma d'arte che si rinnova non appena si leva quel bizzarro "latrato di un coyote ululante". Ma una macchia di colore racconta più cose di una figura composta, come sapevano bene gli impressionisti. Le canzoni di Dylan, si è arreso infine Bertoncelli regalandoci una chiave, non sono mai uguali a se stesse. Come creature vive "nascono, si sviluppano, cambiano", lasciando emergere i contenitori archetipici da cui sono, più o meno consapevolmente, abitate.

Se non ho ancora parlato dei contenuti di questo libro, è solo perché mi spiacerebbe rovinare la sorpresa. Dall'introduzione alla biografia di Anthony Scaduto, 1972, alla recensione di Shadows in the Night, 2015, scorrono quarant'anni di recensioni di album, libri, film, memorie personali, intuizioni, invettive, scoperte, indagini storiche e meravigliose invenzioni come l'intervista impossibile a un Dylan rinchiuso nel manicomio criminale di Huntsville, Texas. Fra le molte chicche, un inserto a colori dedicato ai misteri delle leggendarie copertine di Freewheelin, Bringing It All Back Home e John Wesley Harding, le 65 pillole sulla vita dylaniana pubblicate originariamente su Vanity Fair, digressioni sul Ginsberg cantante e il Dylan pittore, un'intervista a Francesco De Gregori che sviscera tutte le felici contraddizioni dell'abbinata Love And Theft, Amore e furto.

"Resto dell'idea che Dylan non meriti di guadagnare il Nobel per quanto ha scritto", si sbilanciò l'autore nel 2006 introducendo l'immane lavoro di Alessandro Carrera, milleduecentocinquanta pagine di traduzioni con testo a fronte, indici, note, rimandi: Lyrics 1962-2001. Si sbagliava forse, e comunque i saggi di Norvegia ormai hanno osato. Ma il punto resta un altro. Al di là dei premi, non è venuto il momento anche in Italia di dedicare a Dylan studi universitari che mettano in risalto tutte le connessioni dell'opera di questo intellettuale disorganico con la cultura contemporanea, i nostri complicati Modern Times? Ci si arriverà, nel frattempo godiamoci ancora tutte queste parole nel vento.

Riccardo Bertoncelli
Una vita con Bob Dylan
Giunti
pp. 176, 13 euro

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Michele Lauro