Io non ti amo. O forse ti amo, ma tu non esisti
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Io non ti amo. O forse ti amo, ma tu non esisti

«Valentina carissima. Punto. Ecco: accade ogni volta. Quando ti scrivo. Quando comincio una lettera, che suppongo, non so quanto ragionevolmente, che sia una lettera d’amore. Ma forse non è, non è mai stata una lettera d’amore. Io non ti amo. …Leggi tutto

«Valentina carissima. Punto.

Ecco: accade ogni volta. Quando ti scrivo. Quando comincio una lettera, che suppongo, non so quanto ragionevolmente, che sia una lettera d’amore. Ma forse non è, non è mai stata una lettera d’amore.

Io non ti amo. O forse ti amo, ma tu non esisti. Esisti? Ti ostini a esistere? E allora io ti dimentico. Ti giudico una ipotesi infondata. In ogni caso, senza saper a che titolo, per quale motivo, spinto o persuaso da che, io mi rivolgo a Valentina. Certo, dovrei dire: mi rivolgo a te.

Ma tu sei qualcosa di più di una nuvola nella mia testa? Chiamarti è qualcosa di diverso dall’evocazione di un’ombra?

Insomma, quando ti scrivo – e non riesco mai a finire la lettera, per cui mai riesco a sapere perché ti scrivo – quando ti scrivo, mi fermo al tuo nome. Il tuo nome sussulta nella mia testa, e io lo tengo a bada con un grido: “carissima”. Non a te dico “carissima” ma al tuo nome. E lì mi fermo.

Non ho più futuro. Contemplo il tuo nome elegante e inelegante, giovane e senile, impossibile e ricordato. Forse non ti ho mai visto. Ma, allora, perché cerco di ricordare e dove e quando ci siamo incontrati?

Certo, sarà stato un paesaggio con rovine. Certo, una sala lussuosa attraversata dalla peste. Certo, un anfratto losco e prezioso; o tra una finestra longilinea e una tenda pesante, polverosa, logorata dalle tarme. Se non ti ho mai visto, perché ho tanti ricordi di te? La tua voce: mi hai mai parlato? Non è verosimile.

Ma la tua voce è scheggiata, tetra, distratta, casuale. Indubbiamente non l’ho frequentata.

Quei tuoi occhi acri, terribili e infantili, senza riso; la tua infelicità mi è necessaria.

Ti uso, ombra lussuosa e penosa, per addobbare la sala del mio cranio. La tua magrezza, la femminilità compiuta e insieme smarrita, dimenticata, guanto spaiato irreparabilmente.

Il tuo disegno di te stessa. Non so di che colore sia la tua pelle.

Mi piace pensare che tu esisti solo nei lineamenti, nel profilo. La tua distrazione: quando cammini produci infedeltà. Per te sono sleale, mento. Eludo. E tuttavia non oso dire la menzogna che è consueta al tuo corpo: non oso dirti che è per amore che ti scrivo.

Sei un fantasma? Mi piacerebbe crederlo, placarmi con questa semplice, dolce dichiarazione: lei non esiste.

Ma a te non occorre esistere. Tengono il tuo posto odori, strani scricchiolii, ossa o carta, il fruscio di qualcuno che cammina. Valentina. Ripeto il tuo nome. Amo il tuo nome? Se lo pronuncio, aggiungo d’un fiato: carissima. Come sempre, lì mi fermo. E scrivo, e dico punto».

Giorgio Manganelli, 1990

 

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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